AMORE AL MACELLO

BUTCHERED LOVE

AMORE AL MACELLO
di Fax Mac Allister

La prima volta non si scorda mai, purtroppo.
La mia prima volta con Liam, il pattinatore dai glutei stellati, la volevo dimenticare.
Per questo, matricola al college in Sudafrica, creai un profilo su una chat gay. La necessità di essere amati spinge a commettere delle scelte confuse. Dovevo essere davvero confuso per cercare l’amore in un sito che misurava le probabilità di trovarlo sui centimetri in dotazione.
L’amore passava poi da un questionario che chiedeva se fossi attivo, passivo, versatile nelle gang bang, all’aperto o da interni, disponibile al pissing, bukkake, fisting, quanto amassi masticare i capezzoli o pressare i miei con le pinze, farmi legare, appendere, impalare, sostare al crepuscolo nella piazzola dei tir davanti al fast food per camionisti di Edemburg, frustarmi i testicoli con un fascio di ortiche del Limpopo o con un rovo del Karoo…Decine di varianti per tracciare il profilo della vacca ideale, pronta a condividere le sue carni, PER AMORE. Sembrava che tutti gli utenti collegati cercassero il principe azzurro, ma in attesa di riconoscere lo strepito degli zoccoli del cavallo bianco non disdegnassero rovistare l’arsenale di qualche arciere di passaggio.
Aprii un profilo moderato e funzionò.
La parvenza del pudico ventenne da alfabetizzare all’eros suscitava una fila di pulsioni hardcore quanto quelle dichiarate platealmente. Districandomi nell’umida giungla di erezioni rigogliose giunsi al profilo di “ForEverHard”.
Una brillante strategia di emancipazione dal superficiale pattinatore tatuato.
Dietro al sempre duro nickname si celava Joshua, 35 anni da Sandton, azionista nel settore minerario, spesso in trasferta nel Free State, sicuro di sé, realizzato professionalmente, gli occhi azzurro algidi, una fantastica fossetta sul mento e quella voce virile dalle proprietà orgasmiche.
C’era qualcosa di nuovo nel gioco dei ruoli che si era creato fra me e Joshua. Lui esperto e fascinoso, io acerbo in fase di collaudo.
L’idea di frequentare un uomo più grande di quindici anni, sfidare la mia immaturità sessuale facendo di lui un mentore, mi poneva nel costante bilico tra il timore e l’eccitazione per il rischio.
Da neofita del sesso assumeva un’aurea trasgressiva anche quello che non lo era, ma riponevo in Joshua la fiducia nel farmi guidare dove prima avrei dubitato di giungere.
Fiducia che si stemperò alla sua richiesta di sesso senza preservativo. Declinai. Fu il primo “NO” e i turgori svigorirono. Avevo infranto il gioco di accondiscendenza, l’ombra di un mio rifiuto rendeva per lui meno eccitante il nostro rapporto. Affrontai la questione apertamente. Avrei accettato se entrambi ci fossimo sottoposti al test hiv e mi avesse garantito che escludeva amplessi con altre persone. Mi accusò di essere diffidente, si dichiarò deluso e tradito.
Mi chiedevo come un sudafricano potesse concepire la leggerezza meditata del sesso non protetto. Come poteva essere certo che io fossi a posto? Ero iscritto in un ateneo internazionale dove frequentavo il Drama Department e abitavo nel residence del campus, tutti i requisiti per una cittadinanza onoraria a Sodoma.
I dati sulla diffusione di Aids e Hiv nell’Africa australe raccontano uno sterminio silenzioso che si compie per effetto di una guerra senza deflagrazioni. Luther, il mio compagno di corso namibiano, confermava che il business delle pompe funebri aveva reso suo padre uno degli uomini più facoltosi di Mariental.
Il sagace patriarca aveva però seppellito due dei suoi figli sieropositivi. Nonostante l’hiv sia diffuso gli africani provano molta vergogna a parlarne. Nelson Mandela, sulle pagine del Sunday Times condivise la scomparsa del suo secondogenito “Lo dico pubblicamente, perché il virus non sia un tabù, mio figlio è morto di Aids”.
Il nostro maestro di danza contemporanea biasimava la molliccia campagna di prevenzione sessuale programmata dal College. Preferiva condurci la Domenica mattina nel reparto di malattie infettive dell’ospedale civile e imporci come aiutanti agli infermieri.
Un confronto pratico con le conseguenze delle scopate disinvolte.
Ma è anche una realtà che milioni di persone hiv+ in Sudafrica e nel mondo conducono vite longeve e prive di limitazioni.
Appena giunto nel luminoso Free State dal fosco Colinshire ero uno straniero diffidente tormentato dall’ombra dell’epidemia.
Dopo sette giorni le ombre diventarono persone, nomi, storie, amici, compagni di corso, vita.
Detestavo ammetterlo, ma per la faccenda del bareback con Joshua avevo bisogno della valutazione di uno scopatore seriale…LIAM, il pattinatore dai glutei stellati che mi aveva tradito con il barista del Romeo nei cessi del locale.

Sono le 8.10 del mattino. Liam è in ritardo. Seduto al dehor di una tavola calda boera fingo di memorizzare le battute di un monologo per conferire all’attesa un distacco disinteressato. La cameriera indossa un costume tradizionale afrikaner rabberciato.
È irritata perché occupo il tavolino senza ordinare, io quanto lei perché comincio a temere l’umiliazione di un bidone all’appuntamento.
Dal pergolato pendono i glicini che disperdono petali viola sul mio copione. Un polveroso pick-up con il cassone carico di pecore lamentose inchioda davanti al locale. Sgusciano dall’abitacolo due giovani farmer con fucile a tracolla seguiti da un cane.
Distraggono la cameriera con lusinghe ruvide che lei non disprezza. Ordinano frittata di funghi saltati, speck e birre.
Poi lo scorgo librare sui roller appena svoltata la collina dei girasoli. Plana sull’aria sfiorando il lastricato con il portamento di un atleta ellenico in slim shorts e canotta fluo. Mi odio perché lo penso, ma penso che non ricordassi quanto fosse bello.
Incurante della panoramica luminosa che sembra studiata da un team pubblicitario per celebrare il suo ingresso, Liam frena davanti al dehor. Ha colorato con striature smeraldo i capelli biondi.
Il cane lo circuisce con latrati rabbiosi. Gli allevatori lo richiamano severi ma fissano Liam sprezzanti.

Guardo il cane ringhiare mentre lui si accomoda -“È il comitato di accoglienza che ti meriti…”-

Sorride smagliante -“Sono in ritardo!”-

Io, nervoso -“Certo che lo sei, ti avevo scritto che ho lezione alle nove.”-

-“Scusa! Ma lasciami parlare prima che mi spieghi perché siamo qui, ho pensato a un discorso. Farei qualunque cosa per farmi perdonare Fax. Sono stato pessimo, tutte le bugie, il tradimento. So di aver fatto sanguinare il tuo cuore.”-

-“Beh mica solo quello, visto che ti sei preso la mia verginità!”-

I due farmer ci osservano dal loro tavolo.
Io mi schiarisco la gola e modero il tono della voce, ma continuo ad aggredire Liam -“E poi piantala di parlare come in una soap opera.”-

-“Volevo dare un tocco teatrale al discorso, pensavo ti facesse piacere.”

-“Non è teatrale, mi dà sui nervi! Sembri la caricatura di un episodio di Egoli.”-
Una tensione fastidiosa si concentra sulla mia epiglottide, respiro per combattere il reflusso di rancori e ammetto -“Però un tocco teatrale c’è …”- Gli mostro la coincidenza nel titolo del copione che sto memorizzando, “Il ragazzo dai capelli verdi” di Betsy Beaton.
 
Lui, divertito lisciandosi il ciuffo smeraldo con la mano -“Wow! Sono già diventato leggenda!”-

-“Sicuro, se i cessi del Romeo potessero parlare…”-

-“Comunque Fax sono contento del tuo messaggio, non pensavo di risentirti.”-

-“Neanche io, ma ho un secondo fine.”-

-“Spara!”-

-“Prima ordiniamo, rischio due ore di training a stomaco vuoto con quell’invasato di Kosta.”-

-“Quel tipo balcanico che vi addestra come militari?”-

-“Lui!”-

La cameriera ci porge caffè e waffel con i bricchi di sciroppo d’acero e cioccolata fusa. Dal tavolo dei farmer si leva un rutto, lei sghignazza complice.

Mentre annego il mio pasto sotto una colata iperglicemica dico a Liam -“Ho visto il tuo profilo sulla chat Gayza, scrivi che cerchi l’amore.”-

-“Beh, è la verità!”-

-“E come mai le pose della tua gallery sembrano la fase preparatoria di una colonscopia?”-

-“Per mostrare le stelle! Che senso ha tatuarsi il culo se nessuno può vederlo?”-

-“Sei una vittima dell’altruismo. Ma non temere, in quelle foto si vedono le stelle, i pianeti  e un buco nero.”-

-“Cosa avrei dovuto fare? Non hai più voluto saperne di me.”-

-“Devi prestarmi il tuo culo Liam, ecco cosa devi fare!”-

-“Non credevo lo volessi ancora!”-

-“Non voglio scopare con te, idiota!” (Mentivo, volevo eccome). “Devi contattare un tipo che frequento dal tuo profilo Gayza, per capire che intenzioni abbia.”-

-“Sei fuori? Scordatelo!”-

-“Oh, ma dai! Hai detto che faresti qualunque cosa per farti perdonare. Mi trovo in una situazione spiacevole e in parte sei responsabile.”-

-“Io?”-

-“Dovevo dimenticarti e forse nella fretta sono riuscito a trovare un soggetto peggiore di te.”-

-“Ti tradisce?”-

-“No! Non lo so. Mi ha proposto sesso condom free.”-

-“Non lo hai fatto?”-

-No. Gli ho chiesto il test hiv e si è offeso.”-

-“È un idiota!”-

-“Capisci perché ho bisogno di te?”-

-“Ma non puoi aprire un profilo fake con la foto di un concorrente del Big Brother svedese come fanno tutti?”-

-“Io non rubo le foto di uno svedese, e poi nessun reality ha mostrato il culo come fai tu in quella gallery.”-

-“Mi descrivi come una puttana senza morale!”-

-“Liam, non costringermi a essere amaro…Da quando hai le stelle sul didietro ricevi più visite del planetarium di Naval. Provocalo un po’ online e fai qualche domanda su di lui, i tuoi amici del Romeo sono un comitato di comari del gossip.”-

I due allevatori si dirigono al pick up seguiti dal cane, uno di loro sputa per terra nella nostra traiettoria, l’altro mugugna -“moffie.”- (frocio in afrikaans).
Liam ha le labbra lucide di sciroppo, le ripulisce con un giro di lingua, mi diventa duro.
Accetta la missione -“Va bene, ti aggiorno fra una settimana.”-

-“Ti dò quattro giorni. Devo rivederlo nel week end!”-

Aspetto che passi l’erezione, mollo conto, mancia e fuggo via verso il campus. Kosta mi farà vomitare il waffel di corsa a salti e piegamenti in serie da 20, secondo uno schema di allenamento che chiama “suicidio”.

Quello che succede quando Liam Van Heerden è online su Gayza è la metafora di ciò che era accaduto giorni prima nel vicino Zimbabwe, teatro di un tracollo economico-finanziario epocale.
Nel Paese, definito fino al 2000 “Granaio d’Africa” o “Svizzera del Sud”, un camion carico di bestiame si ribalta per una manovra distratta.
Un gruppo di affamati spettatori sulla strada assalta le vacche e le scuoia vive a pugni e mazzate contendendosi le carni macellate a mani nude. Uno scenario splatter degno di un b-movie, di una tragedia greca o di una chat per incontri fra allupati.
Nella tragica, metaforica calca di affamati di carne di vacca, si identifica un conoscente…

Lo attendo in pausa pranzo sul prato della facoltà di discipline sportive. I rugbisti del college si allenano al sole regalandomi una panoramica notevole. Liam arriva a piedi reggendo i roller con le mani.
Si siede sull’erba e accenna un sorriso vacuo.

Io sospiro intuitivo -“Lo sapevo…spara.”-

-“Avevi ragione, sei riuscito a trovare un soggetto peggiore di me.”-

-“Quanto peggiore?”-

-“Si chiama Isak, non Joshua. Ha 42 anni. Non è di Sandton, vive a Kymberly con sua moglie, hanno una figlia di dieci anni. Si sbatte un biondino minorenne che va al liceo di Fichardt Park. Tira coca e non è nuovo al bareback. L’unica cosa vera è il suo lavoro, i diamanti.”-

-“Però! Quanto chiacchierate al Romeo…”-

-“Mi dispiace Fax.”-

-“Mi ha detto ti amo al secondo appuntamento, dovevo immaginarlo.”-

-“Già, non credere mai alle parole di un maschio sulla soglia
dell’ orgasmo. Io Sabato ho ansimato una proposta di matrimonio al fattorino della pizzeria.”-

-“E non lo sposerai?”-

-“Per ora no, si è arrabbiato.”-

-“Perché?”-

-“Credo c’entri il fatto che Lunedì ho scopato il tipo che dà i volantini per la promozione quattro formaggi.”-

Scuoto il capo. Liam incalza -“Fottitene Fax, fatti un giro su uno di quei rugbisti. Ti presento io qualcuno.”-

-“Si fa un biondino del liceo? E vuole convincermi a cavalcarmi a pelo!”-

-“Se vuoi lo faccio pestare. Conosco un ex carcerato sempre pronto ad aiutarmi…”-

-“Sei dolce, però no, devo affrontarlo io.”-

Stavo da schifo, una latta di carne in gelatina, così mi sentivo. Uno scarto di macello in lattina sottoprezzo esposto sugli scaffali di un discount, mentre un accattivante fast food offre hamburger, patatine dorate e gadget. Mi tormentavo immaginando Joshua (ora Isak) scoparsi quell’adolescente, odiandomi per non essere biondo e per essere tutto quello che ero. La richiesta del sesso non protetto poi, accompagnata da un’infilata di stronzate sul completamento di un sentimento mai provato prima, che avrebbe consolidato il nostro rapporto da un vincolo di complicità…
Izak ignorava fosse caduta la maschera di Joshua, ma ignorava soprattutto quanto pericoloso e vendicativo fosse un ventenne umiliato che indossa la maschera dell’ingenuo, rassicurante, bravo ragazzo.

“Una serata memorabile”, questo gli avevo promesso.
Dall’anta dell’armadio nel dormitorio lo specchio mi riflette sobrio ed elegante.
Prelevo i due biglietti dalla cassettiera alla testa del letto.
Li custodisco separati, uno nella tasca destra dei pantaloni, l’altro nella sinistra. Quei cartoncini riveleranno “qualcosa” nel memorabile appuntamento.
Ho scelto io il ristorante esclusivo in Brand Street, dove, casualmente (?) quella sera si riuniscono le Dame Boere della Carità Afrikaner, una congrega di borghesi razziste che alterna l’hobby della filantropia alle kermesse stagionali.
Joshua mi preleva con il suo coupé fuori dal campus.
Commenta quanto i pantaloni mi disegnino bene il culo.
Mentre guida preme la mia mano sul suo pacco per farmi sentire quanto sia duro all’idea di scoparmi dopo cena (finalmente senza guaine di lattice). Dice che sarà come una nuova prima volta, liberi, pelle contro pelle. Schiocca le dita sul ritmo della musica pop in un patetico eccesso di giovanilismo ostentato.
È sensuale, spavaldo, di ottimo umore, solo mi domanda perché abbia scelto un locale così pretenzioso. Imbocchiamo il viale alberato di Brand Street.
Mi imbarazza quando nel parcheggio lancia le chiavi dell’auto al posteggiatore armato di mitra -“Ti affido la bambina!”-
Il parcheggiatore in divisa non può saperlo, ma dentro di me gli prometto -“Tranquillo, lo distruggo prima del dessert.”-

Il ristorante è un edificio nederlandese di fine 1800, con soffitti alti dai pannelli dipinti e pavimentazione in legno, un ampio camino in arenaria e un proverbiale utilizzo delle luci soffuse. Alle pareti, sequenze di dipinti del Great Trek e scene di vita nell’ Oranje Vrijstaat. Un presidio della resistenza segregazionista che non si è arresa alle trasformazioni occorse al di là delle siepi potate chirurgicamente. Gli unici “non bianchi” presenti sono dei subalterni relegati alle mansioni meno esposte. Il pianista suona qualche inno, probabilmente tratto dal repertorio della Banda nazionalsocialista.
Joshua si incupisce un poco quando il maître ci conduce al tavolo centrale nella sala.
A pochi metri da noi la moglie del sindaco, adorna di una parure sufficiente a sanare il debito pubblico del Malawi, pronuncia un’arringa al convivio delle Dame Boere della Carità Afrikaner.

Ci accomodiamo. Lui, scruta la sala diffidente -“Avrei preferito un posto più intimo…”-

Io, ingenuo -“Non ti piace?”-

-“Certo, è carino, ma è lo stile formale che frequento per i meeting di lavoro.”-

-“Scusa, non lo sapevo…”-

-“Quante cose devo insegnarti.”-

Io, malizioso -“Che ne sai? Magari stasera scopri che ho imparato qualcosa di nuovo…e che so fartelo bene.”-

Geme sommesso -“Mmmh, non fare così o ti porto via subito…Ti va? Saltiamo la cena!”-

-“Scordatelo! Sulla carta dei dolci c’è il pudding alla malva e lo voglio!”-

Gioca sui doppi sensi tra il dolce e le farciture che mi offrirebbe al posto del pudding. Nuovi avventori occupano i tavoli circostanti. Controlla il tono della voce sussurrando.
Gli sferro il primo colpo quando il sommelier versa l’assaggio dello Château d’Yquem.
Mentre lui sorseggia il vino io incalzo -“Allora, IZAK, com’è?”-

Esplode un colpo di tosse nervoso, nebulizza il vino dalle narici e si tampona con il tovagliolo.
 
Il sommelier, preoccupato -“Qualcosa non va signore?”-

Lui si ricompone e lo congeda.

-“Perché mi hai chiamato così?”-

Io, candido -“Così come? Ti ho chiamato col tuo nome…”-
E tracanno il primo calice.

Sembra sospettoso. Dissipo i suoi dubbi avviando una vivace conversazione di aneddoti sulla vita al college, lui parla della frenesia di Johannesburg e delle ingerenze capitaliste di un magnate cinese nel settore minerario locale. Monopolizzo la bottiglia da cui attingo generose porzioni. Prima di assaggiare l’agnello glassato allo zenzero la mia lingua è sufficientemente sciolta da schioccare le sferzate -“Quell’industriale pechinese dovrebbe sapere che non si può prendere tutto senza riguardi. Digli che se trovasse il cadavere di una balena nel Colinshire, sarebbe obbligato a consegnare la testa e la coda ai Sovrani di Buckingham.”-

-“Ah, ah, sul serio?”-

-“Certo! Spesso ignoriamo la legge senza saperlo. Ci pensi mai?
È importante conoscere le consuetudini del posto in cui vivi. Per esempio, tu sapevi che in Kenya è vietato fumare tabacco per le strade?”-

-“No, non lo sapevo.”-

-“Ecco, vedi? E magari non sai che l’età minima per un rapporto sessuale in Sudafrica è 16 anni per gli etero mentre 19 per i gay. Non si capisce perché i gay debbano pensarci tre anni più degli etero prima di darlo via! Ma è questa è la legge.”-

-“Perché parliamo di questo?”-

Io, pacato -“Perché forse ti sei distratto, forse non sai che scoparsi un quindicenne in questo Paese è un reato!”-

Lui, gelido -“Ma cosa dici?”-

Dimentico di sussurrare -“Dico che tu, fottuto bastardo, vuoi montarmi senza sella quando raccatti chiunque in chat e fuori dai licei!”-

-“Cristo di un Dio, vuoi abbassare la voce? Ti sentono!”-

-“E allora? Tu sei un protagonista dominante, però ti dò una notizia, a volte i ruoli secondari ti sorprendono e ti fottono la scena! Nelle tasche dei miei pantaloni ci sono due biglietti, in uno c’è il numero di tua moglie a Kimberly, nell’altro quello della famiglia del biondino che ti sbatti. Chi chiamerò prima?”-

Isak si alza dalla sedia  -“Tu hai dei problemi!”-

-“Forse, ma i tuoi Isak Malan di Kimberly, sono molto più grossi!
I miei voti in impostazione della voce sono ottimi questo mese, se provi a fare un passo urlo alla sala che sei un pedofilo e faccio chiamare la polizia. Siediti.”-

Alcune adamantine signore della carità ci osservano.

Isak si mette seduto -“Fax ti prego, abbassa la voce…”-
 
Il maître ci raggiunge -“È tutto a posto signori?”-

Io -“Sì, bene! A parte lui che mi tradisce con uno studente molto giovane…Ci porta un’altra bottiglia per favore?”-

Il maître si dilegua sgomento.

Isak allenta il nodo della cravatta -“Va bene, cosa vuoi?”-

Scuoto il capo -“Isak, Isak, Isak, non puoi comprare tutto con la carta business. Beh, a parte questa cena…il vino costa quanto un semestre al college.”-

-“Allora che intenzioni hai?”-

-“Ahh, non mettermi fretta! Ti ho promesso una serata memorabile. La avrai. Mangia il coniglio affumicato e asciugati il sudore dalla fronte. Un po’ di eleganza.”-  

Mi servo un altro calice di bianco e infierisco -” Quindi tua figlia ha 10 anni? Che gioia essere padre! Però crescono così in fretta. La cartella, la merenda… Poi ti distrai, cinque anni volano e all’uscita di scuola al tuo posto la carica un tipo con un’auto sportiva cromata, e quella frega di brutto quando sei al liceo. Lei magari nell’astuccio delle matite conserva un profilattico, ma quel figo col pistone biturbo le promette l’amore oltre il lattice, e te la carica senza sella sul cofano in un parcheggio o, se fortunata, in una camera d’albergo. Adesso tu mi racconti sinceramente chi sei e perché volevi scoparmi senza preservativo come un untore mitomane. So una quantità di cose su di te, ancora un’altra bugia e ti prometto che la prossima festa del papà la celebri con i tuoi compagni di cella a Grootvlei.”-

E Isak, parla. Svaniscono le proprietà orgasmiche della sua voce nelle parole farfugliate, il mento con la fossetta trema, niente più sicumera. Emerge il vuoto di un quarantenne incapace al confronto maturo, ammorbato da un contesto socio famigliare ultra conservatore e capitalista. Mette compassione un uomo adulto che implora un ventenne di non distruggergli la vita, come se non fosse già a pezzi, con una moglie parcheggiata fra le cristallerie esibita nelle ricorrenze ufficiali.

Nel parcheggio del ristorante il sorvegliante armato guarda impassibile con un grugno verso l’orizzonte. Prima di salire sul taxi che ho chiamato per tornare indietro Isak mi domanda -“Cosa hai deciso di fare?”-

-“Non lo so, sono ubriaco e arrabbiato, è meglio non decida stasera. Tu comportati bene. E se ancora vai a letto con tua moglie, infilati un cazzo di preservativo in trasferta.”-

Monto sul taxi. Abbasso il cristallo scorrevole del finestrino -“Ah, un’altra cosa, mentire sull’età per ringiovanire è roba da…come le chiami tu? Vere checche…Addio, JOSHUA.”-
L’imperturbabile grugno del sorvegliante cede a un ghigno.
Sprofondato nel sedile posteriore dell’auto decomprimo la tensione, i nostalgici edifici coloniali di Brand Street scorrono fuori, l’aggressività lascia posto a una solitudine malinconica.
Estraggo i due biglietti dalle tasche dei pantaloni, sono completamente bianchi, nessun numero annotato.
Conosco molte meno informazioni di quante ne abbia millantate per spaventarlo.
Ciondolo dentro il campus, le rose emanano un profumo intenso dall’aiuola che disegna l’emblema dell’Ateneo. Gruppi di studenti sostano tranquilli sul prato alla luce dei lampioni. Il cielo terso vibra tempestato di astri come un abito di Cher al Superbowl.
Osservo quel luccichio confortato dalla distanza che mi separa dal Colinshire, dove le stelle non si vedevano. Che uomo sarei diventato se fossi intrappolato ancora in quella nebbia disperante? Forse anch’io commetterei torbide nefandezze e mentirei a tutti in una vita accettabilmente esponibile.
Nelle vene e nei reni mi scorrono 10.000 rand di vino pregiato.
Sono sufficientemente ebbro da rischiare un pugno in faccia.
Supero di un piano il mio alloggio nel dormitorio e busso a una porta.
Enoch, l’erculeo studente nigeriano, apre a torso nudo in pantaloncini bianchi. Una cafona croce metallica gli pende dal collo fra i pettorali gonfi. Dallo stereo della camera un rapper minaccia di ardere vivo qualcuno.
Lo anticipo prima che possa chiedermi cosa voglia -“Mentimi Enoch, tanto sono sbronzo. Prometti che se diventi gay sono il primo che ti farai.”-

Lui, con ovvietà -“Sicuro! Se divento frocio tu sei mio.”-

Scoppio a ridere per la prontezza della sua reazione -“Grazie! Buonanotte.”-

Faccio per allontanarmi ondeggiando lungo il corridoio e lui -“Brutta serata, Fax?”-

Barcollante annuisco -“Brutta…”-

-“Stai lì, mi vesto, ci facciamo una birra.”-

Voglio sboccare all’idea di bere ancora, ma non avendo toccato cibo durante quella cena di livore, delle patatine a effetto spugna non guasterebbero.
La destinazione è un pub untissimo gestito da un mozambicano fegatoso, con la segatura al posto della pavimentazione nei cessi.
Io, disinibito dal tasso etilico, mi sfogo davanti a birre e braai di pollo con un nigeriano etero, palestrato, irascibile e pentecostale.

Lui, brusco -“Ma ti lamenti pure? Magari le ragazze facessero così! Frigni perché il tipo scopa un po’ di manzi in giro. E allora? Scopateli anche tu, anzi, scopateveli insieme!”-

-“Dì un po’, hai praticato pattinaggio ultimamente? E se io fossi innamorato di lui?”-

-“L’amore? Hai vent’anni, è pieno di finocchi questo mondo, infilalo un po’ in giro e sii felice…”-

Il mozambicano dietro al bancone inarca le sopracciglia.

Enoch addenta nervoso una coscia di pollo -“Cristo, non posso credere di essere qui a incoraggiare un maschio bianco al sesso gay.”-

Io biascico commosso -“Sono così orgoglioso di te, Enoch.”-

-“Però devo ammetterlo, se prima di conoscerti avessi saputo in che squadra giochi, non saremmo mai diventati amici. Ora non mi importa tanto, sei a posto anche se strano.”-

-“Visto che sono ubriaco e domani mi scorderò tutto, posso toccarti i bicipiti?”-

-“Visto che non sono ubriaco e ti scorderai tutto posso gonfiarti la faccia a manate.”-

-“Mhh, adoro questo tono!”-

-“Non scherzo Fax, ti gonfio.”-

Quella Domenica mattina inforcai la bici per Harvey Road. Composi con un pennarello indelebile, nei bagni maschili della stazione ferroviaria, un annuncio eloquente con il numero dell’ufficio a cui rispondeva la segretaria di Isak. Un turno volontario all’ospedale civile e di nuovo a pedalate verso il campus. In sosta al semaforo mi affianca un camion con rimorchio carico di vacche. Osservo i loro sguardi acquosi e le saluto -“Lo so ragazze, la vita è un macello, ci vediamo in chat.”-
E via, verso il prossimo login d’amore su Gayza.

“AMORE AL MACELLO” tratto da “A life in a Fax” di Fax Mac Allister

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SO BRAVE, SO BRITISH!

Come il Royal Wedding ha stravolto la quiete di un campus universitario

Mi chiamo Fax Mac Allister e questa mattina, prima di terminare la colazione, sono diventato un uomo.
Tranquilli, non reclamizzo una linea di corn flakes dalle proprietà virilizzanti, a questo provvedono i pop up spalancati sul vostro schermo che garantiscono di limonare duro con Gisele Bündchen alla seconda nebulizzata di un’essenza eau de parfum.
E’ stata la prima pagina del “The Weekly” a informarmi del cambiamento, nonostante il mio nome non venisse citato esplicitamente sulla testata. Chi sfoglia i quotidiani di Johannesburg sa quanto forte debba essere il proprio stomaco e sceglie se affrontarli prima o dopo i pasti.
I media sudafricani percorrono la morbosa linea editoriale splatter, che si rinnova a ogni numero con la pubblicazione delle stragi di farmer bianchi trucidati da bande criminali dentro le proprie tenute.
Meningi boere schizzate sulla testiera del letto a colpi di mazzuolo, o mattanza di borghesi crivellati oltre le fallibili recinzioni elettrificate della luccicante Sandton.
Non posso affermare di essere immune alla rassegna di macelleria quotidiana, ma la frequentazione coatta della chiesa cattolica durante la prima infanzia mi aveva abituato all’iconografia truce dei santi infilzati, fustigati, accecati e impalati.
Ebbene, 7,30 del mattino, colazione a casa davanti all’immancabile fotografia di un agricoltore impiccato al suo scaldabagno con il cranio sfondato.
Un dettaglio nella didascalia catalizza la mia attenzione: la vittima viene identificata dal cronista come “un uomo di 30 anni.”
Un uomo di 30 anni? UN UOMO!
Prima di terminare la spremuta d’arancia e le frattaglie di una frittata cruda all’interno e bruciata in superficie, mi lancio a recuperare dal cestino del riciclo i numeri precedenti del The Weekly.
Sfoglio concitato. Lapidario, l’allevatore strangolato con il filo spinato a Randfontein è UN UOMO DI 30 ANNI, come è UN UOMO DI 30 ANNI l’addetto alla sicurezza di una villa a Rivonia decapitato durante una rapina notturna, UN UOMO DI 32 anni è il suo assalitore. UN UOMO DI 30 ANNI è  Roy Bloom, ex cantante dei Joburg Boys che, dopo un provvidenziale trapianto di capelli ha ritrovato la stima e la rottamazione in un reality sulla DS tv…ma questa è un’altra storia.
Lo so, sorge in voi una domanda “cosa diavolo sta succedendo ai trentenni e alle boyband?” Ma nella mia testa, accasciato sul contenitore dei rifiuti cartacei riverbera una sola sentenza:
“UN UOMO DI 30 ANNI”.
Non ho forse IO compiuto 30 anni? Che ne è della mia sempiterna giovinezza?
SONO UFFICIALMENTE UN UOMO!
Come è potuto accadere? Quando avevo 12 anni pensavo ai ventenni come patetici vecchi, a 18 mi figuravo i trentenni come ruderi abbracciati a una cassa di legno in attesa del crepuscolo. Poi, non so quando e perché, ho smesso di pensarci. Oggi un quotidiano locale, incline alla narrazione cruenta, mi schiaffa sul muso tutta l’efferatezza di una formula sintetica confinata nel grassetto di una didascalia:
30 anni = UN UOMO.
Torno al tavolo della colazione ed eccolo lì, sparso nel piatto, il compendio di una vita vacua, la carcassa di una frittata che non ho mai imparato a cucinare. Levo lo sguardo alla parete dove giace il mio diploma di attore professionista rilasciato dalla Westfontein Drama Academy, abbasso lo sguardo, agricoltore impiccato allo scaldabagno, un uomo, 30 anni, E DECIDO. Ancora non posso sapere se questi 30 anni sanciranno la mia effettiva evoluzione in uomo adulto, ma prometto di assumermi le responsabilità delle azioni compiute durante gli ultimi tre decenni, soprattutto di quelle meno lusinghiere. Per avviare questo processo di maturazione comincerò, non a caso, con una confessione relativa alla mia condotta di allievo attore.
Siamo nel 2005, Free State sudafricano, frequento l’ultimo anno del quadriennio in arte drammatica e passo come un integerrimo assertore del regolamento disciplinare che coordina la vita nel Westfontein Campus. Analizzando i registri di classe del Drama Department si noterebbe quanto esiguo sia stato il mio numero di assenze dalle lezioni, severamente sanzionate dal codice Accademico, pena l’espulsione definitiva dai corsi.
Ne maturai meno di 15 nel quadriennio, tutte per certificati motivi di salute. Talvolta ho ignorato qualche linea di febbre, ho tamponato sinistri movimenti enterici assumendo compresse di Shitfix per garantire la mia presenza e non perdere preziose ore di lavoro, il che mi valse una speciale onorificenza al conseguimento della laurea. Ebbene, IO HO MENTITO, quegli allori non sono del tutto meritati. C’ è stata un’occasione in cui ho mascherato di bugiarde spoglie piretiche un giorno di assenza dall’ Accademia per non perdere l’Evento che attendevo da una vita,
IL MATRIMONIO DI CAMILLA PARKER BOWLES CON IL PRINCIPE CARLO DI WINDSOR.
10 Febbraio 2005, il dispaccio di Buckingham Palace sentenzia semplice e conciso
“È con grande piacere che viene annunciato il matrimonio di Sua Altezza Reale il Principe di Galles e Mrs. Camilla Parker Bowles.” Seguono poi le sintetiche dichiarazioni di Sua Maestà Elisabetta: “Il Duca di Edimburgo e Io siamo molto felici che il Principe di Galles e Mrs. Parker Bowles si sposino.”
Quella sera, sul balcone del dormitorio affacciato sull’aiuola che disegna lo stemma secolare dell’Ateneo, prima di andare a letto impugno una tazza di tisana Morpheus e medito sulla faccenda. L’aria australe è carica di energia estiva, il campus aulente di jacarande è (quasi) silente, non fosse per Enok, il nigeriano del piano di sopra iscritto alla facoltà sportiva che si tromba la migliore amica della sua fidanzata. Cheerleaders…quanti danni. Tempo di tracannare l’infuso che millanta proprietà soporifere prendo due decisioni: la prima, domani compro un paio di tappi auricolari per attutire l’inquinamento acustico dello stantuffo nigeriano, la seconda, sarò testimone in diretta di QUEL MATRIMONIO, consapevole di  macchiare la mia condotta  accademica con un’assenza illecita. Camilla e Carlo avevano consumato la loro storia d’amore in regime di clandestinità per oltre 30 anni, causando crisi istituzionali, coniugali, dinastiche e clericali. Pensai che una giornata di  trasgressione dal regolamento Accademico sarebbe stata decisamente più innocua. Non potevo spiegarlo allora, ma la mia necessità di assistere alla cerimonia non era mossa da morbosità di giornaletto scandalistico per shampiste, tuttavia ero certo che nessuno mi avrebbe capito e sostenuto.
Quando vidi per la prima volta Camilla Parker Bowles in un filmato del telegiornale ero un bambino, abitavo nel Colinshire. Camminava cupa senza curarsi apparentemente della ressa intorno. Mi colpì molto quella donna con un copricapo simile a un fagiano incastonato fra i capelli, letteralmente assaltata dai fotografi e dalla folla, investita dai flash e dagli insulti. Domandai chi fosse, temo alle persone sbagliate. La risposta unanime :“è un sgualdrina ed è un cesso”. Ero abituato a convivere con le definizioni sommarie nella nostra piccola comunità. Io, per esempio, da quelle parti ero il bambino con un “nome di merda” che pattinava e non giocava a calcio. Possibile che la vita di una donna adulta sia concentrabile in “è una sgualdrina bruttissima”? Insomma, un poco mi seccherebbe se la mia biografia letta dai posteri venisse sintetizzata in “era un finocchio a rotelle con un nome di merda”.
Grazie a mia nonna Laura, la Royal Family e i loro cappelli esercitavano un vigoroso ascendente su di me. Capire chi fosse la donna che camminava mesta, bersagliata dal pubblico ludibrio, legata in qualche modo alle magioni di Saint James , era mio dovere di suddito, distante solo geograficamente. Sottoposi mia nonna a un serrato interrogatorio sulla biografia di Mrs Parker Bowles, nata Shand, e scoprii che dietro al becero giudizio di “sgualdrina cessa” si celava  la complicata vicenda di una donna innamorata.
Le leggende raccontano che Carlo e Camilla si conoscono nell’Estate del 1970 sul campo di polo di Windsor Great Park bagnato dalla pioggia. Hanno rispettivamente 23 e 24 anni. Lei sceglie queste parole per approcciare al futuro Re del Commonwealth:
“La mia bisnonna era l’amante del vostro trisavolo, che ve ne pare?”
È Amore.
I due non possono sapere che la loro relazione innescherà nei decenni a seguire delle reazioni così violente da far tremare le fondamenta millenarie della monarchia. Carlo sente che Camilla è la donna giusta: è brillante, complice, protettiva, carismatica, paziente e riservata. Vorrebbe sposarla, ma la Royal Family serba altri programmi. Camilla è poco aggraziata, non è vergine e non è nobile, il suo viso non si incornicia degnamente sulle tazze e sui canovacci da vendere al mondo per un patinato Royal Wedding.
Proposta bocciata. La Gran Bretagna vuole una favola dorata, poco importa se privatamente sarà un inferno. La Gran Bretagna avrà la sua favola.
Carlo e Camilla contraggono due distinti matrimoni, ma il loro rapporto non si interromperà mai. Non vi tedio con la cronologia degli eventi che potete consultare ovunque, noi saltiamo diretti al 13 Gennaio 1993, quando la pubblicazione di una telefonata privata fra i due amanti elegge Camilla a sgualdrina del Regno su scala planetaria. Carlo, dominato da un estro spiccatamente romantico, sussurra alla cornetta
“Vorrei essere il tuo tampax, anzi, vorrei essere una scatola di tampax per durare più a lungo.”
Il tracollo, la gogna, il rogo.
Trascorsero degli anni, alcune cose cambiarono, altre no. Il Principe di Galles era separato da sua moglie e continuava ad amare sempre solo Camilla, ma per tutti Mrs. Parker Bowles restava solo una donnaccia, così come io non ero più un bambino, ma per molti rimanevo solo un finocchio.
Quando nel 2005 l’annuncio di Buckingham Palace legittimò il rapporto erano passati 13 anni dalla prima volta che notai Camilla al notiziario. Non immaginavo sarebbe arrivato il giorno in cui la Famiglia Reale e la Chiesa di Inghilterra avrebbero ufficializzato quelle nozze. DOVEVO assistere a quel pezzo di storia. Forse non era la storia dell’umanità, ma un pezzo della mia storia sì, ed era necessario riservarle un’adeguata considerazione, a costo di giocarmi il quadriennio in arte drammatica.
Le nozze erano previste per l’ 8 Aprile 2005 nella cappella di Saint George all’Abbazia di Westminster… Ma il 2 Aprile il papa polacco tira le cuoia nel suo feudo e monopolizza le agende del mondo per una settimana. Il 6 Aprile le campane suonano funeree anche in quello sconfinato Principato di Monaco tutto sole e riciclaggio, causa la dipartita del sovrano Ranier Louis Grimaldi. Il matrimonio slittava così al 9 Aprile, un Sabato, frequenza comunque obbligatoria in Accademia. Se solo un altro monarca, un capo di stato o una pop star internazionale edita da una major fosse schiattata, avrei guadagnato un giorno e goduto della libertà di una Domenica senza trasgressioni disciplinari.
Pazienza, MENTIRÒ, sul registro di classe figurerà “assenza per malattia”.
Quel Sabato il regista moscovita con cui lavoravamo ci avrebbe sottoposto a un esperimento di improvvisazioni sul metodo della biomeccanica per 10 ore. Avesse saputo il russo per quale motivo disertavo l’esperimento mi sarei ritrovato scalzo a vendere aringhe porta a porta in Siberia.
Colpevole di Royal Wedding doloso.
Ma mi serviva una tv davanti al quale piantarmi per assistere all’evento!
Negli appartamenti dei dormitori non era consentito tenerne una. Dovevo trovare il modo di guardare la diretta fuori dal Campus senza essere scoperto. Domenica 3 Aprile consulto gli orari della funzione mattutina per assicurarmi di evitarla, inforco la bici del mio dinoccolato amico Leonard e pedalo alla volta della chiesa anglicana Saint Andrew in Colinton Road. La chiesa sembra una graziosa scultura di marzapane immersa in un parco di bouganville e tulipani. Tutto recintato e sorvegliato da un guardiano che mi perquisisce prima di lasciarmi passare. Un’immagine di impatto trascendentale, io a gambe e braccia aperte tastato da un tarchiato maschio nero prima di entrare nella casa del Signore. Il pastore Verstand, 40 anni, carnagione diafana, alto 2 metri, riordina gli appunti per la replica pomeridiana del sermone. Mi presento e gli espongo la mia necessità.
La sua risposta, lanciando un’occhiata in giro:
“Mi sta filmando?”
Io “Cosa? No!”
“Ah, pensavo a una candid camera! Quindi fa sul serio?”
“Certo! Devo solo guardare la vostra tv per qualche ora.”
“Assolutamente no!”
“Guardi che può fidarsi di me, se preferisce può farmi piantonare dall’uomo armato lì fuori.”
“Mi dispiace Mr. Mac Allister, il nostro televisore non è disponibile per questo genere di proiezioni.”
“Non voglio vedere Penthouse via cavo! Sarà una cerimonia in diretta da Westminster.”
“A due isolati da qui c’è un irish pub, si rivolga a loro.”
“Circondato da sbronzi che mi rutteranno nelle orecchie  le felicitazioni nuziali?”
“Non posso aiutarla.”
“Andiamo! Dov’è finita l’accoglienza biblica per i viandanti?”
“Mi scusi, ma lei non ha l’aria di una gravida errabonda.”
“Non è questo il punto! Da bambino ho abbandonato i cattolici per unirmi alla chiesa di Inghilterra e questa adesso mi respinge?”
“Abbiamo un fitto calendario di incontri, sarò lieto di averla con noi quando desidera.”
“Oh ma per favore, ho anche ordinato una torta in pasticceria per l’occasione!”
“Se vuole scusarmi Mr. Mac Allister la mia famiglia mi aspetta per il pranzo.”
“Lo sa, mi sorprende che non si interessi a questo evento. In fondo chi si sposa è il futuro Capo della Chiesa Anglicana. Tecnicamente Carlo del Galles è il suo datore di lavoro. Pensi se scrivessi al vescovo di Bloemfontein dicendogli che questa parrocchia rinnega l’appartenenza a Canterbury.”
“Pensi se io scrivessi al Direttore del Drama Department dicendogli che sono stato importunato da un loro studente…”
“Grazie per il suo prezioso tempo Pastore Verstand, le auguro un buon pranzo.”
Gli giro le spalle, faccio per andarmene. Poi infiammato dall’impeto estremo con cui potrei giocarmi la carriera accademica, mi volto e con voce sostenuta faccio echeggiare nella chiesa “Frocio!”
Il pastore Verstand “Come dice, scusi?”
“È così che mi chiamavano al mio villaggio. Frocio perché non giocavo a calcio, perché non partecipavo alle gare di rutti e di sputi, perché sembravo arrivare da un altro mondo, fino a quando IO sono diventato il bersaglio di quella gara di sputi. E sa come chiamavano Camilla Parker Bowles, la donna che il Principe di Galles sposerà Sabato? Cavalla, racchia, puttana. E perché? Perché da una vita ama ed è amata da un principe senza somigliare alle principesse delle favole. Quel matrimonio è la rivincita di una vittima che ha difeso la natura dei suoi sentimenti senza fingere di essere qualcun’ altro. È così strano che per una volta io voglia assistere a un finale diverso?”
“Oh Gesù, possibile? È così importante per lei?”
“Sì, lo è.”
Lui, sospirando “ Le ancelle della carità si riuniscono il Sabato nel cottage qui fuori. Lì c’è un televisore, per questa volta può utilizzarlo.”
“Grazie! Non se ne pentirà, mi comporterò bene con le ancelle.”
“A proposito di questo, sono un branco di pensionate chiassose. Mi aspetto che le sorvegli e impedisca l’abuso di alcolici.”
“Sicuro!”
“Rimpiangerà di non aver scelto gli sbronzi dell’irish Pub…”
Mattina del 9 Aprile 2005, La suoneria della mia sveglia suona il “God save the Queen, Radio Campus canta “One in a million” dei  Pet Shop Boys, il sole riverbera luminoso su Westfontein. Respiro l’atmosfera delle grandi occasioni.
Eugenio Alves, il mio inquilino lusitano (che, per favore, era così poco british), esce per un Sabato di lavoro in Accademia. Ha creduto al mio simulato conato di vomito. Mentre i miei compagni di classe si sottopongono a una giornata di disciplinati “otkaz, possyl, tocka, tormos” per sintetizzare scenicamente la verità in un solo biomeccanico gesto, io trasudo menzogna nella realtà. Sorridendo sornione davanti allo specchio  annodo la cravatta con i colori dell’Union Jack. Celo il mio stile insolitamente etoniano coprendomi con una tuta sportiva e il cappello del team universitario di cricket per non destare sospetti all’uscita dal dormitorio. Scivolo fuori dal Campus alla volta della pasticceria dove ritiro una torta a strati con la frutta. Tutto ad altissima frequenza tachicardica, mandibola contratta e sguardo vigile, fino a quando la Saint Andrew in simil marzapane si staglia innanzi, salvifica custodia del silente ammutinamento. Ritrovo il sorvegliante, meno accigliato dalla volta precedente. Mi palpeggia su e giù per scongiurare la detenzione di mannaie o revolver, poi chiede di aprire la confezione della pasticceria. Appena l’involucro schiuso rivela una colorata, fragrante torta, i suoi occhi luccicano.
Si presenta come Orson e confida di adorare i dolci.
Gliene prometto una robusta fetta quando sarà tagliata, ma lui dice
“La dobbiamo tagliare a metà. Subito!”
Io allarmato “Hey, non sia ingordo! Questa è per le mie ospiti.”
“Ma no! Devo tagliarla per controllare che non ci sia una pistola nell’impasto!”
“Orson! Le sembro un criminale?”
“Beh, non mi sembra neanche un atleta eppure porta il cappellino della squadra di cricket.”
“Non solo le cheerleaders si danno da fare negli spogliatoi…”
Il suo sguardo si carica di un’incognita diffidente. Alleggerisco la tensione proponendo “Mi permetta di mostrarla intatta alle signore, poi la tagliamo.”
“Quali signore?”
“Le ancelle della carità, devo incontrarle nel cottage”
“Dio onnipotente! Sicuro di non voler infilare una pistola in quella torta?”
“Sono tanto moleste?”
“Ah ah! Avanti ragazzo, buona fortuna!”
Sprezzante del senso del pericolo e animato da quello del dovere, riparo nel confessionale d’ebano per una rapida trasformazione alla Clark Kent. Smessa la divisa sportiva, torno dandy incravattato e mi avvio verso il covo delle furie.
Qualunque sia il mio super potere, basterà  a domarle? Questa l’incognita, quando un concitato sghignazzare riverbera dall’interno del cottage in stile cape dutch, prima che io prema sulla maniglia della porta per entrare. Lo scenario che mi si presenta non potrebbe essere più familiare, ma non per questo rassicurante. Un manipolo di eccentriche madame in menopausa, paludate di cappellini pastello farciti di frutta e fiori cascanti, esplode in manifestazioni di euforico giubilo ad altissima concentrazione di decibel. Il deja vu mi riporta a decine di fiere, commemorazioni, funzioni domenicali, riffe benefiche e visite per il tè nell’infanzia al villaggio. Sono nove, tutte decise a primeggiare per me. Ai loro occhi velati dalla cataratta emano il fulgore da uomo del momento. Vengo investito da domande le cui risposte sono inascoltate per l’eccesso d’insieme, sento tirarmi per un braccio, mentre una mi porge una sedia, un’altra mi sfila la torta dalle mani, quella mi porge una tazza di tè e una ciotola di budino, qualcuna mi bacia mentre l’amica ci scatta una foto. Individuo preoccupato il televisore, consapevole che queste dannate vegliarde cariche a pallettoni non mi faranno ascoltare una parola della diretta tv.
Un boato stentoreo irrompe nella sala smorzando la tregenda
“SIGNORE!”
È Orson, il vigilante. Capisco qual è il mio super potere: l’umiltà di accettare un aiuto.
“Suvvia, lasciatelo respirare.”
Noto sollevato che le nove madame gli riconoscono una qualche carica autoritaria. Un paio di loro gli trotterella intorno eccitata e lo invita a unirsi al convivio.   Lui, di nuovo verso di loro
“Dio solo sa cosa abbiano patito i vostri mariti per una vita! Invidio quelli già sepolti.”
Si leva un coro di sghignazzanti risolini. Orson incalza
“Avanti, organizzate le cose per bene, il ragazzo vuole vedere la tv. ”
Il gruppo si adopera ordinando un semicerchio di poltroncine intorno al televisore. La tavola è imbandita di vettovaglie. Una corpacciuta signora vestita di giallo taglia la mia torta e distribuisce le fette accompagnate da tazze di tè. Orson, accomodandosi di fianco, sarcastico mi strizza l’occhio
“Sapevo che ti avrebbero steso!”
Io, riconoscente “Grazie Orson, le prometto una torta intera per domenica prossima.”
Sorseggio un po’ dell’infuso e ricordo la raccomandazione del pastore Verstand circa gli alcolici. Divieto raggirato. Il tè è stato preventivamente corretto con una pesante dose di brandy. Tv sintonizzata sulla BBC, live da Londra.
CI SIAMO. È Royal Wedding.
Ancora una volta la stampa internazionale non è stata tenera con i futuri coniugi, tutti pronti a scommettere quanto ridicola sarebbe una sposa di 57 anni in abito bianco con i capelli stopposi.
NON IO.
Davanti all’abbazia di Westminster, sotto un cielo plumbeo very londoner, giunge la Rolls-Royce Phantom VI con lo stemma del casato di Saint James.
Un valletto apre la portiera. Emerge così della vegetazione dorata e riconosco l’ inconfondibile stile di Mrs. Parker Bowles. In barba alle previsioni dei tabloid  “velo si o velo no?”, si è fatta fissare (con la colla  per il bricolage?) una palma e delle piume sui capelli. Torno indietro di 13 anni, alla prima volta che la vidi con quel fagiano impigliato nella sua testa…Sollevo la tazza corroborato dal tè etilico e sussurro orgoglioso
-“SO BRAVE, SO BRITISH.”-
Il reporter in tv chiosa: trattasi di una composizione di Phil Treacy, il cappellaio irlandese che aveva già incastonato sulla zazzera di Camilla impianti alla Tim Burton in molteplici occasioni. Lei timida, saluta la folla con leggero cenno di mano svelando l’anello donatole dalla Royal Family, appartenuto alla Regina Madre. Io, assetato di riscatto, voglio leggere nel suo aggraziato gesto -“Ridete adesso, stronzi. Chi sta per diventare la seconda donna più potente del Commonwealth?”-
Al suo fianco il Principe di Galles a mezzo sorriso, con la consueta aria del “Sono qui, quanti siete, che bello, ma quanto vorrei essere a spasso per le Highlands.”
Segue uno stuolo di teste coronate, gentiluomini in cilindro e tight, ladies dai copricapi apparecchiati della qualunque. La cerimonia ha inizio.
Benedizione del Primate Anglicano Rowan William, mente sopraffina e sopracciglia ribelli, simile a un elfo dei boschi. Una richiesta di perdono dei due sposi per aver commesso adulterio, ottimo repertorio musicale dal retrogusto elegiaco e malinconico.
Ma è LEI, Sua Maestà Elizabeth Alexandra Mary Windsor II, madre dello sposo, a regalarmi la soddisfazione maggiore con questa dedica
“Ho un importante annuncio da fare: Hedge Hunter, il mio cavallo, ha vinto il Grand National!”
Si levano le risate degli astanti. Quindi prosegue con la metafora ippica, elencando i faticosi ostacoli che i cavalli devono superare in quella prestigiosa competizione all’ippodromo di Aintree. Così torna a suo figlio e alla nuora appena acquisita
“Come in una dura corsa a ostacoli anche Carlo e Camilla hanno superato terribili barriere. Ce l’hanno fatta, sono orgogliosa e auguro loro ogni bene.   Mio figlio è felice al traguardo con la donna che ama, benvenuti nel recinto del vincitore.”
Le note del God Save the Queen si levano nell’etere e…Mrs. Parker Bowles, nata Shand, può accartocciare e cestinare la sua carta di identità da commoner.
Al suono degli ottoni, sulla fanfara gallese di Hoddinott, la coppia percorre la navata centrale verso l’uscita dell’abbazia e, per la prima volta, teste coronate, ministri, paggi, portaombrelli ed estintori DEVONO chinare il capo davanti a lei, ufficialmente Sua Altezza Reale Camilla, Duchessa di Cornovaglia e di Rothesay, Principessa del Galles, Contessa di Chester, Baronessa di Renfrewal, futura Regina del Regno Unito e del Reame del Commonwealth.
All’esterno di Westminster le folate di vento mettono alla prova le penne dorate sul blasonato capo, ma lei commenta sorridendoci su. Il sorriso è equino, i capelli sono stopposi, la coppia è matura, sì, ma non importa. Come dorati pomelli sullo scettro, eccoli inossidabili, insieme dopo 34 anni da quell’incontro piovoso al campo da polo. La folla esulta, acclama e sventola bandierine da pochi penny, e io lo so, qualche bulletto camuffato da reporter domani scriverà maligno.
Ma innalzando la mia tazza di tè, fedele alla promessa fatta da bambino isolato nella Contea dimenticata, annuisco e brindo a voce limpida
“È così che deve andare, Dio salvi la Duchessa di Cornovaglia!”
Orson il vigilante mi osserva stranito, le madame intorno esultano, colmano i bicchieri, servono pasticcini e mi estorcono la promessa di un prossimo incontro. Al termine del simposio una di loro, Mrs. Janssen, mi offre gentilmente un passaggio sul fuoristrada di suo nipote, il giovane fattore nerboruto in canottiera dall’aria ruvida che la aspetta fuori dalla Saint  Andrew. Dio se accetto!
Questo è tutto. Se compiere 30 anni significa essere uomini e riconoscere responsabilmente il proprio passato, io ho appena cominciato a farlo.
Consapevole che questa deposizione potrebbe causare l’invalidamento della qualifica di attore professionista a opera del Drama Department. Come se lavorare per il servizio reclami del cibo in scatola per animali domestici non avesse già adombrato sufficientemente i bagliori della mia gloria scenica…Ma questa è un’altra faccenda, come lo è il seguito dell’amicizia con il nipote di Mrs. Janssen, ruvido fattore in canotta con cui ho condiviso ruvidi, frugali colloqui al crepuscolo nel cottage della Saint Andrew…
SO BRAVE SO BRITISH tratto da A life in a Fax – Fax Mac Allister – Copyright ©
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