Ei fu Fax, precoci prove di coccodrillo

Soddisfatti dall’esito del concepimento di un primogenito nel 1979, i coniugi Mac Allister riattivano la filiera pelvica nel 1982 per assortire di una secondogenita il nucleo familiare. Delusi quando l’ecografo spoilera la presenza di un paio di testicoli fluttuanti nelle brodaglie amniotiche. I perforanti proclami bellici di Margaret Thatcher, a difesa delle Falkland, valicano l’ambulacro uterino sollecitando il feto a una posizione patriottica che si manifesta con distacco della placenta e parto prematuro. La nascita di Fax Mac Allister coincide con l’anniversario dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, della Lotta di Liberazione eritrea e del golpe libico di Gheddafi. Cresce in un contesto italo britannico a fosche tinte afro-coloniali. Sviluppa dimenticabili velleità artistiche dalle quali si annovera la considerazione del maestro di danza “È talmente fuori tempo quello che fai che diventi scenicamente interessante.” Diventa attivista culturale per la Dickens Fellowship. Sogna di condurre un morning show radiofonico ma inforca le cuffie nei call center. Cura ad Asmara degli studi etimologici sul proprio nome per scoprire che tigrina è la matrice, ma littoria la contaminazione. Seguono stagioni di smarrimento identitario ed espiazione di ataviche colpe che lo legano al popolo eritreo. Nel 2025 subisce una rapina a Durban. Lo zaino sottratto contiene l’unica copia della sua autobiografia. Diserta la scena sociale. Quattordici anni dopo, uno speaker di Kovsie FM trova il manoscritto fra le riviste in una lavanderia a Bloemfontein. Legge le pagine in diretta radio per rintracciarne l’autore. Hollywood, Bollywood e Nollywood si contendono i diritti. Fax viene trovato in una stanza dell’Hotel Torino a Massawa. L’autopsia sentenzia: decesso avvenuto cinque anni prima nel corso di attività onanistica ispirata da un cartonato a dimensioni reali di Vin Diesel.

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REJECT

“Eccoti! Allora, com’è andato il garden party? Ti sei confuso fra quei bevitori di tè come un qualunque suddito di Sua Maestà?”


“Come no! Erik Holland ha commentato quanto somigliassi a Mu’ammar Gheddafi, Lady Kleinwort, che non sente un fottuto tuono, ha frainteso e innescato il panico per attentato terroristico. Sono stato circondato dalle Guardie a Cavallo di George Town e interrogato per due ore nelle scuderie.”


“Mio Dio… Comunque stai benissimo in kilt!”


“Sì, a proposito, credo di avere una zecca attaccata allo scroto…”

Selva Maneri e Abel Mac Allister, 1975

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LASAGNE D’AFRICA

La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta coincidano con il mio passato.

I lapilli di ragù eruttano dalla bocca di un panciuto signore dalla vocalità stentorea e planano sulla sua canottiera che disegna una cartografia untuosa.
La rigogliosa peluria pettorale bruna che emerge dalla scollatura arresta il moto gravitazionale di alcuni detriti di manzo in salsa di pomodoro. Compiaciuto alterna la masticazione del bolo di lasagna all’intonazione del motivo “Si va con Mussolini per l’Africa Oriental, abbiam con gli abissini molti conti da saldar…” ritmando vigorose percussioni della mano sopra il ginocchio monolitico ugualmente villoso.
Esercito uno sforzo di alienazione acustica e visiva per neutralizzare quella presenza. Inutile. Le vibrazioni aggressive pervadono la sala da pranzo della Trattoria Mafalda, di cui siamo gli unici due avventori. Volgo lo sguardo alla finestra che si affaccia su una strada di Addis Abeba, oppressa dall’edilizia residenziale moderna. La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Le tende sdrucite, come cataratte esauste, offuscano la visuale polverosa su un mondo che non ha compreso. Le crepe nelle mattonelle ottagonali del pavimento insinuano la nobiltà dei gigli stilizzati . Non mi sorprenderei se la demolizione avvenisse in questo momento a opera di un costruttore indiano con noi accomodati ai tavoli, accartocciati nel rudere che sorregge alle pareti ritratti celebrativi dei Savoia e impettiti gerarchi fascisti. Sono alla ricerca delle tracce che hanno segnato la storia della mia famiglia e, drammaticamente, sconvolta la genealogia. Le stesse che sedimentano nel mio nome. A differenza dell’apparente dolcezza di Asmara, Addis Abeba si manifesta faticosa e dolente.
Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta nella trattoria coincidano con il mio passato avito.
Una giovane cameriera etiope, dopo aver estratto il necessario dalla credenza tarlata e sbilenca, percorre la stanza trasportando il vassoio con i piatti e le posate, per apparecchiare il posto che occupo da pochi minuti. Intercetto lo sguardo del raffinato sconosciuto distante pochi metri che tenta di stabilire con me una complicità, quindi sentenzia -“Aò, ste abissine c’hanno er culo che sò dù Ambe. Ce voi morì n’artra vorta sull’Amba Alagi!”-
Segue una risata densa di catarro.
Scorgo la durezza nella mimica facciale della ragazza che liscia le grinze della tovaglia. Spero non mi stia comparando umanamente a quell’uomo mentre rimpiango di aver scelto questo mausoleo della nostalgia littoria per il pranzo. Riconosco al centro del piatto lo sbiadito emblema imperiale dell’Africa Orientale Italiana la cui base riporta solenne “romanamente”. L’usura ha scrostato il muso di uno dei due linguacciuti leoni avvinti al fascio. Dall’altro tavolo irrompe ancora un -“Bella che ce metti dentr’ar sugo pe fallo così bono? Ce sta’n piccantino. C’ho o metti tu eh? Se vede che te piace er friccicore, mannaggia a te.” Ride crasso battendo le mani.
La voce, lo schianto delle membra prodotte da quel soggetto collidono contro i miei denti e i timpani.
Cambio idea rivolto alla cameriera -“Mi scusi, servite solo cucina italiana o si può avere l’injera?”-
Lei in un fluido italiano -“Abbiamo l’injera, certo!”-
-“Ottimo, vada per l’injera! Me la cavo senza le posate.”-
Mi sorride e ritira la forchetta e il coltello. Raggiunge l’ospite in canotta per sparecchiare i suoi resti. Lui -“C’ha i segreti questa. To’o farei vedè io’n gran segreto, ah ah ah.”- Si avvolge il pube con la mano sinistra, tende il braccio destro verso l’alto con le dita della mano unite e le domanda -“O sai fà sto saluto?”-
Lei, imperturbata, reggendo i piatti -“Ho le mani occupate.”-
-“Sempre occupate ce l’hai ste mani, ah ah ah! Tiente libera la bocca pe’cantà, sì va co Mussolini per l’Africa Oriental, c’abbiam co gli abbissini molti conti da saldar…”-
La cameriera si dilegua verso la cucina.
Lui, rivolto a me -“Se sò dimenticati tutto questi. Se nun era pe’i idaliani stavano ancora a magnà banane ne’e capanne de merda e n’groppa ai somari. Mi nonno, mi padre hanno costruito de tutto qui ner fascismo e mo sti abescià se fanno costruì e ferovie dai scinesi. Quei artri culi ggialli.”-
Accosta alla bocca la mano destra a cucchiara e urla verso la porta della cucina -“Aòò, mo’o disci l’ingrediente segreto o c’hai i segreti coi scinesi pure tu? Ah ah ah!”-
Un trepestio stanco e lento proviene da quell’uscio, ne emerge un’anziana donna in abiti amhara con la croce ansata tatuata nel centro della fronte e dei versi dalle sacre scritture incisi sul collo. Si regge a un bastone di legno adunco, nell’altra mano afferra un contenitore per le spezie sul quale è applicata un’etichetta indicatrice del contenuto compilata manualmente.
L’italiano ammutolisce, con un gesto fermo la donna pone rumorosamente sul suo tavolo il contenitore sul quale c’è scritto in stampatello IPRITE. Decisa, lo guarda negli occhi e scandisce
-“NUN CE SIAMO DIMENTICATI DE GNENTE.”-


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The Dickens Galaxy (dickensian around the world)

Thanks to the Rochester’s community for welcoming me to the recent Dickens Festival. I didn’t want to “invade” your wall with a long-winded post. but if you want, you can share it.Thank you for the commitment and passion you put into setting up that wonderful event, this is the reason that led me there specifically to attend the parade: Charles Dickens is not simply a novelist, Charles Dickens is a style, an impetuous artistic current. When my gaze turns to the shelves of my library dedicated to Dickens I perceive the vital buzz of thousands of lives that have passed the test of time. Dickens is one of the most precious gifts I have received in my life. When I think of Pip, Hugh, Ester, Sissy, Joe Gargery, I think of them as people and not as characters, because the power of a Dickensian creature is the vitality resistance to 200 years from its conception. So Pip is not an invention. Since my adolescence Pip is the friend I hoped to meet in my life, imperfect, impulsive, naive, fragile, human. When I was a child, my grandmother Laura set up a small home reception every year on February 7 during which some episodes were told from Dickens’ novels. We children used to play a performance with cardboard silhouettes of the characters drawn by my grandfather. Today I am an adult (since 2000 … DAMN) and I shared this tradition with the children of the current family. They are excited to celebrate the birthday of a gentleman born two centuries ago with a real cake and surprising stories! Dickens has always been in my life since I have memories and I can say that he will always be there for me. Thanks to Dickens I kept the childish feeling of magical expectation of Christmas which is renewed every year with the reading of “A Christmas carol” and every time on the night of December 24th after closing the book I am amazed because that infallible alchemy has worked once again. Around me under my Christmas tree I perceive the vibrations of that wonderful story that feeds my excellent mood for all the following holidays. I am happy to see how contemporary artistic expressions spread Dickensian culture. I believe that theater can and should still draw a great deal from Dickens because the intensity of some characters and their dialogues are perfect for the stage. Miss Havisham is one of the most complicated theatrical characters a woman could play. Often I need to relive a particular Dickensian scene, so I open the novel and thanks to the authenticity of those dialogues a world of images and emotions arise. I thank Dickens for being able to tell how in the most dramatic life there is room for the comic break and I thank him for showing the secondary characters. The person apparently in the shadow of the protagonists is capable of showing impetus of unforgettable personality. Thanks to Charles Dickens for his prolific creativity, thanks to anyone who today is committed to keeping his art alive and delivering it to the future. Thanks to all of you Dickensians, wherever you are in the world. Fax Mac Allister

“DICKENSIAN AROUND THE WORLD” All rights reserved. The use, in whole or in part, of the contents of this story is forbidden, including the storage, reproduction, reprocessing, distribution or distribution of the contents by any means of printing, audio, video technology platform, stage-theatrical representation, support or electronic network, without the prior agreement of the author Fax Mac Allister macallister1812@gmail.com

NORTE DE AFRICA 52001

MELILLA, Norte de Africa 52001

Las palmeras inertes bajo el sol del norte de África, las fachadas modernistas reflejan la luz contra los barrios magrebíes, las campanas de la iglesia responden al llamado del muecín, un grupo de fieles judíos pasean por la acera sombreada. Una frontera terrestre separa y une dos continentes. Los legionarios marchan bajo el fuerte mientras un soldado marroquí observa a Europa a través de una rejilla metálica, la televisión transmite una telenovela argentina de los años 80 cuando la radio de Nador emite un rapero contemporáneo. El huésped  de un hotel consume una mermelada de piña mientras un recolector de fruta maliense espera  su futuro en el Monte Gurugù … Me llamo Fax Mac Allister, estoy en Melilla, Norte de Africa 52001. Trata de no perderte.

www.faxmacallister.com Una vida en un Fax 

*La imagen está tomada de un fotograma del documental “LES SAUTERS” 2016 de Abou Bakar Sidibé, Moritz Siebert, Estphan Wagne

Edinburgh 09/04/2021

Mon Repos/Buckingham,
thanks for your wonderful journey.

Mon Repos/Buckingham


Your life has been a tragedy and a comedy, although you didn’t get the role of the protagonist you were a precious character.

You have known deep feelings and mastered emotions.

Thanks for your wonderful journey.


Fax Mac Allister of Colinshire

MENDING SHADOWS

La mia ombra al sole è lunga quanto un bambino grande, come quelli che fanno la quinta e vanno in gita al Charlotte Lake, ma io ho sei anni. Sto aspettando i miei genitori all’esterno della bottega di Mr.Trinket, il magnano. Quello vende solo ferri, che noia! Ho chiesto a mamma e papà di rifare il nostro gioco. Quando loro usciranno dal bazar fingeremo di non conoscerci, di incontrarci per la prima volta.
La campanella in ottone tintinna e la porta del negozio si apre. Lei indossa un abito colorato svolazzante che le copre le ginocchia, mi piacciono i suoi boccoli morbidi sulle spalle. Lui, che ha gli occhi grandi e i capelli corti e ricci mi chiede -“E tu chi sei?”-
Io, pronto -“Sono un bambino!”-
-“Come ti chiami?”-
-“Fax.”-
Lei, meravigliata -“Che strano nome!”-
Io, compìto -“È un nome africano!”-
Lui- “Da dove vieni?”-
-“Da Asmara!”-
 -“Lontano! Sei arrivato su un cammello?”-
Rido -“No! Ho preso il treno fino a Massawa,poi il bastimento e dopo un digeribile…uun dirigibile!”-
Lei, divertita -“Hai viaggiato tanto! Sei qui da solo?”-
-“Sì.”-
-“E adesso dove vai?”-
-“Non lo so. Voi dove abitate?”-
Lui indica la magione sulla collina di Gardar -“Lassù.”-
Io stupefatto -“Dentro quel castello?”-
-“Proprio lì. Vuoi venire con noi?”-
Io -“Ma per sempre?”-
Lei annuisce sorridente.
Io -“Quindi sono il vostro figlio.”-
Lui -“Sì, per sempre…”-
Saltello affiancandoli -“Va bene, andiamo!”-
Li tengo per mano. Il sole pallido estende le nostre ombre sul selciato muschioso. Loro sono Selva e Abel, io sono Fax, quindi sono il loro figlio…per sempre.
“Mending memories” tratto da A life in a Fax di Fax Mac Allister  Copyright ©

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SCHEMI DI GIOCO

“Se vuoi essere un uomo, sgonfia a calci un pallone e gonfia di calci un finocchio.”

“Se vuoi essere un uomo, sgonfia a calci un pallone e gonfia di calci un finocchio.”

Colinshire 1990.
Abel Mac Allister era un uomo ottimista e onesto.
Virtù preziose, considerato che Abel è un venditore.
Attraversando in auto “Abissinia”, l’isolato italiano del villaggio di Gardar, Abel scorse un gruppo di bambini che giocava a calcio su un prato fangoso, dove due pertiche sbilenche fungevano da porta da gioco. Raggiunto il sobborgo britannico, Abel prestò attenzione dall’abitacolo a una comitiva di ragazzini biondi e fulvi che tiravano dei rigori in un modesto campo sportivo.
Britannici e italiani abitavano aree separate del Colinshire, demarcazioni immaginarie rese invalicabili da un’annosa, freddissima guerra di trincea. Lasagne contro fish and chips, cattolici contro anglicani, Quirinale contro Buckingham Palace.
Solo un motto sanciva l’armistizio accordando i fronti rivali su una posizione condivisa, “Se vuoi essere un uomo, sgonfia a calci un pallone e gonfia di calci un finocchio.”
Parcheggiata l’auto al ventiquattresimo di Cumberland Street, Abel assestò due colpi di batacchio alla porta di casa Darling. Cliff Darling aprì reggendo una bottiglia di vino rosso.
Abel incalzò -“Salute Darling! Qualcosa mi dice che è approdato il mercantile da Aberdeen…”-
-“Puoi dirlo Mac Allister! Entra…”-
Cliff percosse benevolo la spalla di Abel e diresse un richiamo verso la cucina -“Cinthiaaa…ci occorre la cristalleria fine, visite dalla collinaaa…”-
Cinthia Darling emerse da una nube vaporosa brandendo una spatola con la mano nuda e calzando un guanto da forno nell’altra -“Abel Mac Allister, non ricevo una visita di tua moglie da quando i bell bottoms andavano di moda. Diglielo! Siete snob come vocifera il volgo?”-
Abel, rivolto a Cliff -“Lei ti minaccia sempre con gli utensili da cucina?”-
Cliff -“Peggio, poi ti serve quello che ha preparato.”-
Cinthia scudisciò suo marito con la spatola -“Che idiota! Effettivamente quello stupido agnello sembra crudo e bruciato. Per fortuna abbiamo il vino! Bevi un bicchiere?”-
-“No, grazie ragazzi, Selva ci aspetta. Fax è qui da voi?”-
Cinthia annuì –“ È di sopra. Cliff accompagnalo e di’ a Evelyn che la cena è pronta.”-
Cliff Darling schiuse l’uscio della cameretta. Sua figlia saltellava in tutù con una corona di plastica in testa, Fax si dimenava sopra un baule rosso cantando “My old piano” di Dyana Ross, con un cilindro rivestito di stagnola sul capo e due stelle azzurre nelle gote.
Sì, l’ottimismo era una delle spiccate virtù di Abel Mac Allister. Dei due bambini, non era suo figlio a indossare corona e tutù.
Cliff spense il giradischi -“Ma disastro c’è? Cosa fate?”-
Evelyn impermalita  -“Dovevi bussare. Sono le prove del nostro show, tornate dopo.”-
I due uomini si scambiarono uno sguardo.
Abel imbarazzato -“Fax, levati il cappello, dobbiamo andare”-
-“Evelyn mi ha detto che posso tenerlo.”-
Lui -“No, no! Lascialo qua. Le stelle come si cancellano?”-
Evelyn, saccente -“Sono tatuaggi!”-
Abel -“Tatuaggi?”-
Lei -“Sì, vanno via con acqua e sapone, domani ci facciamo uno spartito musicale sulla fronte.”-
Abel, imitando l’entusiasmo della bambina-“ Ma che bello! “- Poi adombrato -“Dai andiamo Fax, è ora di cena”-
In auto, lungo il declivio verso il castello, Abel lanciava dubbiose occhiate al figlio con le gote stellate. Quella notte prima di addormentarsi nel loro letto disse a sua moglie
-“Dobbiamo fare qualcosa per Fax.”-
Lei, ungendosi le mani con una lozione canforata -“Che genere di cosa?”-
-“Qualcosa perché non vada in giro con la faccia dipinta.”-
-“Sono più tranquilla quando gioca con Evelyn che con sua sorella. Melissa le stelle gliele avrebbe marchiate con un ferro rovente.”-
-“Dico davvero Selva, Fax non sta bene! Quel bambino ha qualcosa che non va, ci mette in imbarazzo con l’intero villaggio.”-
-“Sai chi non sta bene? Io! E sai chi mi mette in imbarazzo? L’intero villaggio!”-
-“Cosa ti succede?”-
-“Quello che succede da sempre! Stamattina facevo la fila all’emporio per pagare la spesa, ma Mr. Buttle serviva qualunque britannico arrivato dopo di me. Poi fingeva di non capire il mio inglese mentre alle mie spalle sentivo sghignazzare “spaghetti”. Arrivata al castello mi sono accorta che metà delle patate scelte da sua figlia erano marce!”-
-“Magari era a corto di forniture, il mercantile è arrivato con dodici giorni di ritardo.”
-“Allora dovrò tornare domani, si dice che Nelly Buttle sappia tastare bene la merce giù al porto. Difendi quella sgualdrina?”-
-“Ma no!”-
-“Abel, cosa siamo? Troppo “spaghetti” per gli inglesi e i traditori nel castello british per gli italiani! Sono stanca di essere processata!”-
-“Abbiamo i nostri amici, Cintia reclama una tua visita, loro non ci giudicano.”-
-“Tutti ci giudicano!”-
-“A maggior ragione dobbiamo evitare che Fax si comporti in modo strano. Così proprio non va. Mi verrà in mente qualcosa, lascia fare a me…”-
-“L’ultima volta che ti ho lasciato fare con quel bambino era un neonato e lo hai registrato all’anagrafe con il nome di un dispositivo elettronico.”-
-“Non essere amara, sai bene cosa significa quel nome.”-
-“Sì, lo sappiamo tu, io e quattro ascari trucidati sull’Amba Alagi nel 1941.”-
-“Va bene, sei stanca, è la tua frustrazione a parlare.”-
-“Se liberassi la mia frustrazione non parlerei, darei fuoco a questa dannata contea, castello compreso!”-
Selva sprofondò sotto le coperte volgendogli le spalle.
Forte del suo ottimismo, Abel spense il paralume a frange sul comodino confidando in un’illuminazione. Cupe visioni popolarono i suoi sogni. L’eco dell’infanzia scaturiva ombre remote impigliate nelle trame dolenti della memoria, la prematura morte di sua madre, l’abbandono di suo padre cinto dalle nebbie destinato all’Asmara. La prima notte in quel castello gelido sulla collina di Gardar, gli estranei inglesi che, gli dicono, saranno la sua nuova famiglia, lui che si abbandona in lacrime sul baldacchino della camera senza sfilarsi le scarpe, Laura Mac Allister che gli parla dolcemente in una lingua incompresa di Fred, il figlio perduto. Sopravvissuto al dolore, ancora bambino, Abel si convince “il peggio era quello, il peggio è trascorso”.
Dovete sapere che Abel Mac Allister vendeva su provvigione gli spazi pubblicitari per The Harp, una stazione radiofonica della Contea. Gli inserzionisti che pagavano per venti secondi di spot sulle frequenze locali non erano facoltose holdings: il macellaio rifornito dalla battuta di caccia al fagiano, la segheria che ambiva a rivalutare la sua immagine dopo l’increscioso fuori programma delle dita mozzate di Donald Greene, il libraio che alludeva alla disponibilità dei pornazzi all’ombra dei classici esposti, la mescita a cui non occorreva sollecitare l’afflusso di avventori, l’agenzia di pompe funebri che sovente strappava qualche assiduo avventore alla mescita.
Ma ecco che un giorno la “North Kick” sottoscrisse l’accordo per una pubblicità sulle frequenze radio.
Abel Mac Allister emanava il fulgore dell’ottimismo. Come non averci pensato prima?
LA NORTH KICK! Una società atletica dilettantistica che allena i calciatori in età scolare. Grazie a quella provvidenziale contrattazione brillava la salvezza di suo figlio Fax.
Quella sera, sventolando un modulo d’iscrizione alla scuola calcio, mio padre tornò euforico nell’appartamento del castello dove alloggiavamo. Durante la cena annunciava orgoglioso che sarei diventato un allievo della North Kick, puntuale per il mio compleanno.
Mio fratello John Mark -“Che storia!”-
Mia sorella -“Dov’è il mio regalo?”-
Mio padre -“Mancano cinque mesi al tuo compleanno, Melissa.”-
Io -“ C’è un guscio di noce nell’insalata.”-
Mia madre -“Hai sentito Fax? Ti regaliamo l’iscrizione al corso di calcio!”-
-“Ma io non gioco a calcio.”-
Lei -“Non si può rifiutare un regalo.”-
-“E voi fatemene uno diverso, uno che mi piace.”-
Dopo cena mi venne mostrato un pieghevole della North Kick.
Lasciai che John Mark se ne impossessasse.
Ero in pericolo, mio padre era equipaggiato e deciso.
Il pomeriggio seguente attesi che l’orologio olandese a pendolo scandisse le 17.00. Davanti a me la scalinata che congiungeva il nostro appartamento a quello dei miei nonni Mac Allister, custodi del castello di Gardar. Dalle travi del soffitto pendevano i vessilli dei Territori del Commonwealth. Complice lo sconforto, li associai a delle lame più che a dei tessuti celebrativi. Mi fiondai al piano superiore per un colloquio con la nonna Laura. Fortunatamente non era occupata con una delle ladies in chiffon e maniche a sbuffo che riceveva per il tè.
Consapevole di sconfinamento non autorizzato la raggiunsi nel suo studio. Scriveva a macchina. Quando la tastiera dell’Imperial 50 orchestrava metallica, dovevo osservare distanza e cautela marziali. La macchina per scrivere era una reliquia donatale dal Mayor di Salinsbury nel 1982, dopo aver redatto l’ultimo dispaccio prima che la città venisse ribattezzata Harare.
La nonna scorse la mia sagoma dallo scrittoio ma proseguì a lavorare senza considerarmi. I bagliori del fuoco acceso animavano le ali rapaci dei draghi sugli alari in ottone. Sedendole frontale sul divano vicino al camino, sospirai reggendo la testa con le mani.
Il ticchettio proseguiva. Sospirai di nuovo. Il ticchettio si arrestò per un secondo e riprese. Sospirai più energicamente.
Mia nonna eresse il capo – “ Fax! Prevedi di sopravvivere per due minuti, o il peso del mondo ti schiaccerà se non mi precipito lì?” –
Generosamente, le concessi di rimandare le sorti del mio insidiato destino a fine battitura.
Quindi mi raggiunse sul sofà -“ Sentiamo…”-
-“Papà vuole farmi giocare a calcio”-
-“Questo è il dramma?”-
-“Io non ci voglio andare.”-
-“Perché no?”-
-“Perché non mi piace”-
-“Glielo hai detto?”-
-“Sì.”-
-“Forse papà vuole che tu faccia dello sport. È giusto”-
-“Ma faccio già educazione fisica a scuola!”
-“Con una maestra disabile, infatti. So che vi fa giocare a nascondino. Certo non ti candiderai alle olimpiadi…”-
-“Io non voglio fare calcio”-
-“Tuo fratello ama il calcio, tua sorella danza, tua cugina cavalca, i tuoi cugini giocano a stoolball. Ci sarà uno sport che ti piace.”-
-“Voglio pattinare.”-
-“Oh bene! Allora pattinerai. Devi solo dirlo ai tuoi genitori.”-
-“E non puoi farlo tu?”-
-“Sì, potrei, ma non sarebbe corretto. Devi farlo senza un portavoce.”-
Sospirai ancora e lei -“ Oh ma per favore Fax, questo non è un problema! Ti trovi a scegliere se giocare a calcio o pattinare, siedi sopra un divano comodo e tua madre prepara torte per la merenda. Tutto questo mentre un bambino a Kolkata sceglie se prostituirsi o digiunare…se non lo hanno già scuoiato per vendere i suoi organi. Quindi tira su quel muso e stasera parla con i tuoi genitori”-
A tavola, esordii durante la cena -“Io non voglio giocare a calcio.”-
Mio padre -“Che storia è questa? Devi fare dello sport.”-
-“Voglio pattinare.”-
Mio fratello -“Che schifo, è una roba da femmine. “-
Mia sorella -“Non è vero, anche Nick il mio maestro di danza pattina.”-
Mio fratello -“Infatti è una femminuccia.”-
Mia sorella  -“Brutto scemo, lui ha i muscoli.”-
Mia madre -“Voi due smettetela subito.”-
Mio padre -“Cosa vuol dire che vuoi pattinare ? Non si può praticare qui.”-
Mia sorella -“Non è vero, Nick pattina dentro la palestra di George Town.”-
Mio padre -“Grazie Melissa, non ho chiesto il tuo contributo. Il calcio è più adatto a un bambino.”-
-“Ma non mi piace.”-
Mio padre, urtando le posate sul piatto “Oh dannazione Fax! Perché non ti fai piacere una mia proposta? Farai calcio, nessuna alternativa.”-
Cominciai a piovere lacrime sul roastbeef.
Mia madre, più morbida – “Fai almeno un tentativo.”-
Io -“No!”-
Mio fratello -“ Questo è proprio scemo.”-
Mio padre, infastidito -“Non puoi continuare a disegnarti le stelline in faccia.”-
Mia sorella -“Anche Delia Berry sa andare sui pattini.”-
Mio fratello, spazientito -“Ma è una femmina!”-
Mia madre -“Sospendiamo qui. Fax, vai a sciacquarti il viso.”-
Quando uscii dalla stanza, lei ritorse -“Credevo dovessimo fargli un regalo…”-
Mio padre -“Lo sto facendo, cerco di salvarlo da un tutù e una coroncina, mi ringrazierà un giorno.”-
-“Bene, poi mi dirai com’è quando piangerà durante le partite. Perché ci sarai tu a bordo campo con gli altri padri che ti chiederanno, quello è tuo figlio?”-
-“Di’ un po’, vuoi che pianga anch’io sul roastbeef?”-
Mio padre era contrariato e offeso dal mio modo di essere.
Resistere al calcio insinuava negli abitanti del villaggio un diffidente presentimento, suo figlio evitava qualcosa di proverbialmente maschile.
Non ero l’unico a cercare conforto al piano superiore del castello, la sera successiva mio padre consultò mia nonna.
Lei, dopo averlo ascoltato nel suo studio sul sofà accanto al camino -“Abel, mi sto sforzando credimi, ma non capisco. Fax vuole pattinare. Allora?”-
-“Gli ho proposto il calcio e ha pianto. Capisci? Ha pianto! Non per la gioia, lui ha pianto perché NON gli piace il calcio!”-
-“Quindi il problema è trovare uno sport che gli piaccia. Ve lo ha suggerito, vuole pattinare.”-
-“No! Il problema è fargli fare quello che fanno i maschi della sua età. Tutti i bambini prendono a calci un pallone. Perché mio figlio vuole pattinare?”-
-“Non vuole sparare al poligono, vuole pattinare! Cosa c’è di così nobile nel calciare una palla?”-
-“Non deve essere nobile, deve essere normale!”-
-“Fax è un bambino educato e dolce. Sei sempre stato un ottimista, perché ora questo dramma?”-
Abel afflitto bofonchiò “dolce” come fosse un insulto.
Laura sempre meno paziente -“Oh ma per favore Abel, mi costringi a parlarti come faccio con Fax! Mio figlio si tuffava nell’Oceano, improvvisava evoluzioni sui cavalli sottratti alla scuderia dei Lenville e non dimenticare che sbriciolò gli incisivi di Bella Dunkan alla vigilia delle sue nozze. Poi abbiamo adottato te, un cattolico! Tuttavia non sono la più sfortunata. Ci sono figli che si iniettano l’eroina negli occhi, il tuo ha chiesto solo dei pattini!”-
Mio nonno Gilbert entrò nella stanza -“Qualcosa non va?”-
Laura, caustica -“Una vera tragedia! Fax vuole pattinare…”-
Gilbert, estatico -“Oh, i pattini! Il console olandese una volta mi raccontò che i pattini salvarono la flotta nazionale nella Guerra degli Ottant’anni.”-
Si chinò davanti al camino e proseguì attizzando il fuoco -“Gli spagnoli avevano circondato le loro navi sul Mare del Nord. Gli olandesi avevano a bordo i pattini con le lame, sono scesi sull’acqua ghiacciata e si sono dileguati verso il porto di Amsterdam. Quegli spagnoli idioti li guardavano scivolare liberi verso casa.”-
Laura, rivolta ad Abel -“È un aneddoto sufficientemente virile per i tuoi canoni atletici?”-
Il giorno del mio ottavo compleanno sceglievo con i miei genitori un paio di pattini a rotelle da Tackleton, il giocattolaio di George Town. Distante da Gardar e dagli sguardi dei nostri compaesani, distanti dall’emporio di Mr. Buttle (che pure i pattini li vendeva) dove Nelly Buttle omaggiava i clienti della generosa scollatura già popolare fra i camalli sbarcati da Aberdeen. Sfortunatamente per mio padre, Mr.Tackleton aveva acquistato un passaggio pubblicitario sulle frequenze della Harp. Abel sperava di non essere riconosciuto dal proprietario mentre suo figlio barattava la virilità per dei pattini.
Il garzone, un giovane dalla zazzera arruffata e il viso bitorzoluto, me ne mostrò un paio blu.
Li calzai emozionato alla sensazione delle ruote sotto i piedi, ma un articolo di colore fluorescente rapì la mia attenzione
-“Mi piacciono quelli”-  dissi indicando i roller sgargianti su uno scaffale.
Mia madre, tesa -“Quelli arancioni?”-
-“Sì!”-
Mio padre deglutì faticosamente.
Il commesso, incredulo -“Ci sono altri colori più…da maschio.”-
Io -“Arancioni sono proprio belli!”-
Mia madre annuì sconsolata, il ragazzo me li porse.
Abel fece qualche passo indietro, cadde seduto su una rudimentale panca di legno davanti a un espositore di scarpette da calcio.
Un bambino ne misurava un paio.
Mio padre, affranto -“Sembrano comode.”-
Il bambino assentì.
Mio padre, sottovoce -“ Se fingi di essere mio figlio finché quel bambino con i pattini esce dal negozio, ti do cinque pounds.”-
Il bambino lo guardò diffidente.
Mio padre -“E va bene, ti compro un pallone, ma fingi di essere mio figlio davanti al proprietario.”-
Mia madre lo richiamò -“Abel, abbiamo fatto.”-
Lui, al bambino -“Se un giorno la tua famiglia ti vende ai trampolieri gallesi ambulanti, non contare su di me…”- E ci raggiunse risentito.
Usciti dalla bottega di Tackleton ero il più felice degli omini su tutte le superfici ciclabili e pattinabili emerse. Quei pattini erano i più belli che avessi mai visto.
Quando li esibii al castello mio nonno Gilbert esclamò -“Che colore da…”-
Proruppe mia nonna Laura -“Olandese! Che colore da olandese, vero Gilbert? Rammenta la Guerra degli Ottant’anni…”-
Dormivo con i pattini ai piedi del letto per non separarmene nella notte. Pretendevo di pulire le rotelle con un panno dopo ogni avventuroso periplo nella mia camera. Mia madre corresse le maniacali abitudini obbligandomi a riporli nella scarpiera comune con le altre calzature e vietandone l’utilizzo nell’appartamento.
Ma dove pattinare? Le strade di Gardar erano limacciose e irregolari. Dominato da un impeto di coraggio in un pomeriggio ventoso li collaudai sul piazzale della Saint Thomas, la chiesa anglicana. Impeto sgradito ai calciatori del campetto circostante che, allertati da Toby Clark, mi raggiunsero per bersagliarmi a pallonate.
Il piano terra del castello ospita la sala dei ricevimenti, fasti di un passato in cui l’aldermanno della Contea fregiava di cariche pompose i forestieri dai Territori d’oltemare. Quella sala era proibita a noi bambini, come tutte le zone del castello a eccezione per l’ala residenziale di servizio. Dalle vetrate esterne mi ero accertato di quanto fosse ampia.
Il portone per accedervi era chiuso. Conoscevo l’ingresso interno, ugualmente serrato. La soluzione stava nel provare una per volta le chiavi delle stanze proibite. Pendevano su una toppa alla parete piantonata da un’armatura ostile. Preda di una sventurata idea montai con le scarpe su una sedia imbottita e…
-“Fax Jeremy Mac Allister!”-
Non so spiegare per effetto di quale abilità metafisica o umana superiore, eppure mia nonna Laura mi aveva già scoperto. Fottuto delatore di un Toby Clarck, eri sempre ovunque? Conservo di quell’istante la memoria sensoriale del congelamento di ogni globulo che fluisce nelle vene. Mia nonna, pur sprovvista di un pallone da calcio con cui lapidarmi, incalzò -“Raccontami le tue intenzioni.”-
-“Stavo cercando delle chiavi.”-
-“Si, questo lo vedo, come vedo i tuoi calzari ingrati su un sedile che risale a Giorgio IV. Sono ansiosa di ascoltare il seguito…”-
-“Non so dove pattinare, volevo vedere se il salone ha un pavimento liscio…”-
-“Che io sia bandita da tutti i Territori di Commonwealth se non ti spezzo le dita! Riponi subito quelle chiavi alla toppa.”-
Ubbidii -“Nonna ma io voglio pattinare.”-
-“Fax! Come devo farti capire che questo castello e tutto quello che contiene appartengono alla Corona e che io e tuo nonno siamo responsabili della sua custodia? Non ti difenderò quando confesserai a Sua Maestà e al Duca di Edimburgo di avere minacciato il loro pavimento.”-
-“Ma loro non sono mai venuti qua e neanche ci telefonano.”-
Lei, offesa -“Questo lo dici tu! Proprio ieri sera mi hanno chiesto se avessimo fatto lucidare il laminato. Saranno molto delusi quando gli racconterò quello che meditavi.”-
Mia nonna giocava con me la carta dei sovrani adirati anche per risolvere questioni estranee alla custodia del castello. L’idea d’indispettire la Regina del Regno Unito mi turbava sempre molto. Mi figuravo con i rollerblade davanti al trono di Elisabetta e Filippo mentre si consultavano circa la truce fine cui destinarmi.
TAGLIATEGLI LA TESTA!
Che i principi Harry e William non avessero mai rigato un pavimento, rotto un vetro a Buckingham o durante le vacanze a Balmoral?
Scesi dalla sedia e salutai la nonna.
Lei -“Ma dove pensi di andare?”-
-“A giocare!”-
-“Dopo aver commesso vilipendio? No davvero! Seguimi.”-
Da uno scaffale della biblioteca nel castello estrasse un volume massiccio con la copertina spessa, rilegata severamente alle pagine itteriche e corrose. Meritai un panegirico di qualche ora sulle gesta di Guglielmo I il Conquistatore poi, credo, persi i sensi per agonia, perché i ricordi seguono alla settimana successiva.
Mio nonno Gilbert, livellando la superficie con strati di linoleum, aveva adibito una delle serre dismesse nel giardino a pista di pattinaggio coperta. Meno ampia del salone ricevimenti, ma mi era stato garantito che Elisabetta e Filippo approvavano.
Pattinai benedicendo la Corona per tutto l’Inverno, riparato dagli elementi, dalle soffiate di Toby Clarck, dalle pallonate ostili.
Ogni sera, di ritorno dal lavoro, Abel Mac Allister percorreva Abissinia, l’isolato periferico di Gardar dove i bambini italiani disputavano i tornei di calcio sul prato fangoso. Svoltava per il sobborgo britannico, dove ragazzi normanni non meno competitivi, si contendevano il pallone nel modesto campetto.
Arrivato nel suo appartamento al castello, Abel tollerava con malcelato disappunto il paio di pattini arancioni riposti nella scarpiera. Quei pattini gli ricordavano quando l’ottimismo lo aveva illuso di trasformare suo figlio Fax in un calciatore. Quel colore penetrante aveva spento la sua brillante positività.
Abel Mac Allister era un uomo onesto e un fidato venditore, ma l’ottimismo di un tempo era andato offuscandosi.
Abel, che non voleva rinunciare alla sua virtù dominante, si fece un regalo. Una scarpiera personale in misto cascame. Gli abitanti di Gardar sapevano che le dita amputate di Donald Greene erano cadute negli scarti della segheria e che albergavano dentro qualche manufatto in truciolato venduto nel villaggio. Evelyn Darling sosteneva di sentire nella notte uno schiocco delle dita provenire dal suo sgabello da toeletta tinto di rosa. Dentro alla nuova scarpiera di Abel nessuno poteva riporre alcuna calzatura contro la sua autorizzazione, niente di fluorescente e di arancione. Le scarpe da calcio di John Mark godevano di cittadinanza onoraria nel tabernacolo della rettitudine plantare. Un pomeriggio, nella foga per raggiungere il televisore e ascoltare la sigla di “Penny Crayon” (che amavo più del cartone stesso) commisi un errore.
I pattini nella scarpiera proibita.
Quella sera mio padre entrò nella dining room reggendo i miei pattini per le stringhe fluo e un pallone da calcio sotto braccio. Ammutolimmo tutti alla vista del suo sorriso soddisfatto.
Mia madre, sospettosa con la salsiera fra le mani -“Abel, cosa…”-
Lui -“Lascia fare a me Selva…”- Poi, verso di me -“Fax, mai sentito parlare di ROLLER SOCCER?” …


SCHEMI DI GIOCO tratto da “A life in a Fax” di Fax Mac Allister Copyright ©

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Un tè con la nonna (corretto al coming out) di Fax Mac Allister

In cinque anni non ho mai utilizzato i bagni del liceo per evitare di farmi una bevuta con la testa dentro il cesso, ed eccomi incollato al vetro del distributore di merendine con una mano che preme sul collo e un anfibio piantato nel culo…

Luglio 2002. Volo di linea South African Airways Johannesburg- London. Approfitto di una breve vacanza universitaria per tornare a casa. Ne farei a meno, ma i tempi sono maturi per compiere L’OPERAZIONE COMING OUT con il primo membro della famiglia…mia nonna Laura. Gli assistenti di volo hanno terminato di mimare le procedure di sicurezza. Da quando ho preso posto il bambino dal sedile posteriore sferra dei calci, piagnucola e chiede ai genitori -“Quando arriviamo? Quando arriviamo?”-
Suo padre lo ignora, legge una rivista maschile tutta testosterone dove carpire i segreti per durare più a lungo, trovare il punto G e sgonfiare le borse sotto gli occhi.
Sua madre lo rassicura -“Subito tesoro, arriviamo subito…”-
Ma come subito? Ancora non abbiamo decollato! Lui molla calci, si dimena e aumenta l’intensità dei gemiti. Lancio uno sguardo supplichevole a una hostess mentre il mio schienale rimbalza ai tonfi. Lei percepisce l’irritazione diffusa fra i passeggeri e porge un bicchiere d’acqua alla madre perché ne anneghi i lamenti. La donna fa per appendergli il bicchiere alle labbra, il bambino si divincola rovesciandosi l’acqua addosso e i pianti diventano fradici ultrasuoni da un centro di torture nord coreano. La signora seduta di fianco a me, una donna sulla sessantina in un tailleur rosa pallido da bomboniera sbiadita, fa cenno alla hostess di avvicinarsi e sottovoce le chiede

-“Sa se il bambino è malato o handicappato? Perché in questo caso nessuno più si lamenterà…”-
La hostess sussurra-“No signora, è solo un rompipalle.”-
La bomboniera aumenta drasticamente il tono vocale intimando -“Giuro su Dio che mi rimborsate il biglietto!”-
Alle nostre spalle, mentre l’aereo si posiziona sulla pista, QUEL -“Quando arriviamo? Quando arriviamo?”- “Subito campione, subito!”-
Imbrigliato dalla cintura di sicurezza allacciata mi volto e attraverso lo spazio dei poggiatesta mi rivolgo nervoso alla madre -“Perché fa così?”-
Lei, oltraggiata dalla mia invadenza -“Perché è un bambino!”-
-“No, perché LEI fa così? Perché gli dice che arriveremo tra poco?”-
-“Perché è un bambino! Cosa dovrei fare?”-
-“Dirgli la verità per esempio e dirgli che è un bambino che disturba!”-
Lei, rivolta a suo marito – “Ma che problemi ha questo?”-
Lui fa spallucce mentre continua a leggere la rivista testosteronica. Mi volto sconfortato, indeciso se urlare anch’io -“QUANDO ARRIVIAMO? QUANDO ARRIVIAMOOOO?”
I passeggeri mormorano, qualcuno sostiene non sia troppo tardi per farli scendere. Con la coda dell’occhio vedo la madre del bambino trafficare dentro una borsa da cui estrae un biberon. Verrà sedato? Niente, lui si contorce e piange in un sibilo che perfora il cranio. Digrigno i denti, stringo il bracciolo della poltrona, la passeggera di fianco ci tamburella nervosamente le dita. La hostess tenta un effetto placebo porgendo al bambino uno snack confezionato. Il padre adotta la strategia dell’invisibile come un’entità estranea al nucleo, forse ancora una pagina e il punto G sarà localizzato.
La madre declina spaesata -“No no, grazie! Abbiamo le nostre merendine.”- Il bambino si irrigidisce all’intervento dell’estranea, tre secondi di quiete e riparte aumentando l’intensità dei lamenti.
La hostess inarca le sopracciglia verso di me -“Ci ho provato…”-
Io porto le dita delle mani su entrambe le tempie e scuoto lievemente il capo -“Non mi faccia questo, 11 ore di tortura ad alta quota, NO!”-
Lei mortificata mi porge lo snack rifiutato da quel nano posseduto -“Tenga, se lo merita…”-
Io -“Grazie, ma non potrei sedermi altrove?”-
-“Mi dispiace, il volo è pieno.”-
Annuisco depresso. Osservo lo snack che mi ha appena donato. La vista del marchio dolciario scritto in un morbido corsivo riportato sull’involucro viola mi risucchia in un flashback di quattro anni prima nel Colinshire. Il mio naso, la faccia, sono compressi contro il vetro del distributore di bibite e cibi confezionati nell’atrio del liceo dove studio. Una scarpa pesante spinge contro il buco del mio culo. A tenermi immobilizzato sono tre coetanei che ciondolano nella stessa scuola e che da quando vi ho fatto ingresso mi apostrofano con un forbito elenco di titoli. Uno di loro si chiama Mimmo, ha origini italiane. Berenice Olivetti, l’insegnante di lingua italiana, come in un perenne derby idiomatico giocato fuori sede, ribadiva quanto l’italiano fosse superiore all’inglese per ricchezza di sinonimi. Aveva ragione. Mimmo padroneggiava quel patrimonio lessicale con disinvoltura. “Frocio, rotto in culo, succhia cazzi, pederasta, invertito, ciucciasborra, checca, pompinaro” erano solo alcuni dei sinonimi che attingeva dalla lingua di Dante per definirmi. Non mi aggiravo da solo per i corridoi della scuola, sapendo che avrei potuto incontrare lui o la sua camarilla. In cinque anni di liceo non ho mai utilizzato i bagni per evitare di farmi una bevuta con la testa dentro il cesso o leccare le sgommate di merda. Quel giorno commetto un’imprudenza e abbandono la classe per acquistare la merenda. Eccomi incollato al vetro del distributore di vettovaglie con una mano che preme sul collo e un anfibio piantato nel culo. Non distinguo nitidamente la scelta dei versi che Mimmo e gli altri due mi stanno declamando, è un magma di concitazione fosca, lo sputo che mi raggiunge, gli schiaffi sulla testa, l’alito esalato dentro le orecchie, le pulsazioni violente sulle tempie, il sudore che mi gronda dalla fronte aleggiano come in un altrove…Non sta capitando a me, non può succedere davvero. Tutto quello su cui mi concentro compresso contro il vetro è il marchio dello snack sullo scomparto numero 14 del distributore, lo stesso che tengo fra le mani sull’aereo.
Come allora, qualcuno mi prende a calci sorprendendomi alle spalle.
Decollo sopra una Johannesburg soleggiata. File di veicoli costipati lungo ampie autostrade rimpiccioliscono con le piscine nei giardini delle ville, colonne di fumo si sollevano da montagne di rifiuti, i grattacieli dei mall luccicano come i tetti di lamiera negli slam. Ogni bambino subisce il fascino dello spiccare il volo sopra cose e persone che si allontanano, il figlio di quei due NO. Cerco di concentrami sul logo dolciario morbidamente autografato ma non riesco più a isolare i molestatori come un tempo. Stringo nervosamente lo snack nella mano, l’aria contenuta nell’involucro scaturisce in una piccola deflagrazione.
Ancora un “Quando arriviamo, quando arriviamo?” E ancora un “Dai, subito amore, subito.”-
Slaccio la cintura di sicurezza, mi volto piantando le ginocchia sul sedile e invado lo spazio retrostante rivolgendomi direttamente a lui fissandolo negli occhi. Ha circa cinque anni.
Ignoro i suoi inutili genitori -“Ascoltami bene, tua madre ti ha detto una bugia. Non arriveremo fra poco. Ci vogliono 11 ore di viaggio. 11 ore sono tanto tempo e io ho tanto bisogno di stare calmo.”-
Lui mi osserva istupidito dimenticando di chiudere la bocca.
Incalzo -“Sto andando a casa, devo dire a mia nonna che sono fidanzato con un maschio, ma mia nonna forse si arrabbia e allora io non ce l’avrò più una casa, e a Natale, pensa a Natale, tu riceverai un sacco di regali bellissimi ne sono sicuro, mentre io sarò da solo in una strada senza le scarpe o rinchiuso in un brutto ospedale ungherese dove NON ci si fidanza con un maschio.”-
Sua madre inorridita -“Ma cosa…?”-
Io- “Solo un attimo signora.”- Poi, nuovamente rivolto a lui
-“Me lo fai tu ora un regalo di Natale in anticipo? Puoi stare buono, senza calci, senza urla, così io penso alle parole giuste per non fare arrabbiare mia nonna? Pensa al Natale…Puoi?”-
Lui ancora con la bocca aperta e gli occhi sbarrati annuisce. Io, riconoscente -“Grazie!”-
Mi accomodo e allaccio la cintura di sicurezza ignorando chiunque, poi sento il bambino -“Mamma, ma quand’è Natale?”-
Lei- “Tra poco tesoro, tra poco…”-
La turbolenza sembra placata. La hostess mi fa un occhiolino e si accomoda. La bomboniera di fianco – “Grazie a lei, e buona fortuna con sua nonna…”-
È giunto il tempo per gustare il mio dolcetto dallo scomparto 14 oltre il vetro.
Castello di Gardar nel Colinshire. Immobile nell’androne osservo dalla base della scalinata la porta sulla cima. All’estremità della rampa, segmento di congiunzione con il nostro alloggio, l’appartamento di mia nonna. Laura Mac Allister, custode del castello, visceralmente fedele alla Corona Britannica, radicalmente protestante anticattolica. Sulla parete sinistra Enrico VIII mi osserva imbolsito dentro la cornice, l’orologio olandese a pendolo batterà dalla parete destra cinque rintocchi entro tre minuti. Allo scoccare delle ore, sulle note della melodia Westminster, il meccanismo metallico anima un omino che regge sulle spalle il globo terrestre. Da quando sono nato, se un fardello appesantisce il mio spirito, quello è il segnale per salire la scalinata e destinarlo a una collocazione di alleggerimento. Si sono arrampicate negli anni lungo quella rampa le mie crisi famigliari, scolastiche, sociali, esistenziali e religiose. Mai prima di adesso interrogazioni sentimentali o sessuali. Laura Mac Allister faceva dell’autocontrollo il suo motivo dominante, menzionava degli aneddoti millenari provenienti dalla Royal Family adatti a ogni occasione, monito per una condotta irreprensibile. Esiste un aneddoto per me sull’amore fra maschi dal Casato di San Giacomo? Mi decido a salire, il palmo della mano sudata lascia un alone umido sul corrimano. I passi riverberano grevi nel vestibolo. Una voce improvvisa mi fulmina alle spalle
-E tu dove stai andando SIGNORINA?”-
Io, sopraffatto dalla colpevolezza mi volto -“Mamma! Chi te lo ha dett…”-
Mia madre mi guarda dubbiosa, poi vedo una vaporosa coda di pelo infeltrito ai miei piedi e capisco che si sta rivolgendo a Bleach, la gatta che mi ha seguito sulle scale.
Io- Ah, lei!”- Sollevo la gatta e gliela consegno -“Eh sì…tu non puoi venire qui…SIGNORINA.”-
Mia madre -“Vai dalla nonna?”-
-“Per un tè.”-
-“In jeans? Non sei troppo sportivo?”-
-“No, è una cosa informale…”-
-“Tua nonna non è mai informale.”-
Si ritira con la gatta in braccio chiudendo la porta del nostro quartierino. Mi accascio sulla balaustra facendo il possibile per non cedere a un infarto, asciugo la fronte madida con la manica. SIGNORINA! Non posso andare avanti così.
È Bessy ad accogliermi e condurmi nel drawing room. Donna di mezza età, governante, dama di compagnia, cuoca, cameriera, sarta, parafulmine, amica della nonna. Bessy, suo malgrado, è il retaggio della cultura aristocratica pedestre del Colinshire, afflitta da complesso di emarginazione, sostenuta da chi non si è arreso all’idea di abitare l’estrema periferia del Regno; ancorata a protocolli e rituali tediosi dimenticata dallo stesso Regno.
Mentre dispone su un piccolo desco il servizio da tè, i vassoi con un pasticcio di carne, del pane imburrato e delle uova, mi rassicura -“Lady Mac Allister è nel suo studio, la raggiunge subito, si accomodi intanto.”-
-“Grazie Bessy.”-
-“La Rhodesia le giova signorino Mac Allister, ha un ottimo aspetto!”-
-“Questo fa bene all’autostima ma comincio a perdere i capelli, comunque abito in Sudafrica!”-
-“Ma sì, una di quelle porzioni dell’Impero…”-
Evito di puntualizzare che il Sudafrica si è affrancato dal dominio coloniale da qualche decennio e che la Rhodesia oggi sarebbe lo Zimbabwe.
La stanza è pervasa da un profumo di agrumi, dalla finestra aperta del bovindo una corrente fresca oscilla vigorosamente la tenda drappeggiata. Mi chino davanti al camino decorato, ogni piastrella raffigura una sequenza dalle Due Guerre di Copenaghen per celebrare la duplice vittoria della Royal Navy.
-“A quando l’ormeggio?”- La voce di mia nonna mi distrae dalle reminiscenze piastrellate.
Veste un abito turchese plissettato su cui è appuntato l’emblema della Fondazione Dickens, il geranio rosso. La sua ritta alterigia è ingentilita dall’azzurro degli occhi malinconici e dall’abitudine al sorriso. Bessy assicura con dei nastri di velluto le estremità delle tende, gonfie come le vele di un piroscafo.
Saluto la nonna con un bacio. Ci accomodiamo sulle poltrone davanti al deschetto imbandito.
Azzardo un’iniziativa -“Lasci fare a noi Bessy, ce la caveremo.”-
La nonna intuisce che preferisco rimanere solo con lei e la congeda. Maneggiando la teiera mi dice -“Perdonami per l’attesa, una telefonata imprevista di Dorothea Wingfield…”-
Io -“Dorothea Wingfield è ancora viva?”-
-“Attento! Dorothea Wingfield è più giovane di me… Ora puoi farmi il tuo complimento.”-
-“Complimento?”-
-“Perché dimostro meno anni di lei.”-
Io, ruffianissimo -“L’ho sempre pensato!”-
Lei fingendosi lusingata -“Lo so! Dicevo, Dorothea è tutta fremiti e sghignazzi perché sua figlia convola a nozze con un conte danese. Mi ha rammentato che custodisco un castello, ma sua figlia abiterà in una magione di proprietà. Peccato che Bernetta Kennedy mi abbia confidato…”-
Io esclamo interrompendola-“Bernetta Kennedy…”-
Lei irritata- “Sììì, Bernetta è ancora viva!”-
-“Ma no, volevo dire, Bernetta Kennedy ha ancora quell’alito che stende i cervi?”-
-“Non essere irriverente! A ogni modo sì, povera Bernetta, il suo fiato è pestilenziale, e dire che spende una fortuna per quelle miscele eupeptiche indiane. Comunque Bernetta mi ha confidato che lo sposo è un signore sulla sessantina e che a giudicare dalla circonferenza del suo addome apprezza i biscotti al burro locali. Il titolo acquisito dalla figlia di Dorothea Wingfield è quello di contessa del West Grønland.”-
-“Che cosa affascinante! Governeranno su quella contea?”-
-“Come no! Una porzione di artico completamente spopolata a 40 gradi sotto zero.”-
Chiudo gli occhi avvicinando la tazza al mio naso, inebriato dall’aroma agrumato del tè.
La nonna -“È un infuso di scorze delle arance eritree…”-
Incalzo -“Da Keren!”-
-“Precisamente. Dimmi, hai saldato regolarmente la quota associativa al Dickens Fellowship?”-
-“Sì, nonna, l’ho fatto.”-
-“Bene! E ti viene recapitata puntuale la rivista in Sudafrica?”-
-“Direi di sì…”-
-“Ottimo! Perché sul prossimo numero del The Dickensian leggerai un mio editoriale.”-
-“È meraviglioso!”-
-“Sì, ho ricevuto un invito ufficiale dal Consiglio di Rochester per Settembre. Ma ora basta, raccontami tutto di te.”-
Io, secco -“Sono gay.”-
Lei posa la tazza che approssimava alle labbra -“Intendevo qualcosa che non so.”-
Io ripongo rumorosamente la tazza sul piattino -“Tu lo sapevi?”-
-“Perché, tu no?”-
-“Beh, io…”-
-“Oh ma per favore Fax!”-
-“Allora perché non me lo hai detto prima?”-
-“Prego?”-
-“Mi avresti alleggerito di un peso enorme!”-
-“Cosa avrei dovuto dire: guarda il giardiniere che bel virgulto, non fareste una bella coppia?”-
Io, stupefatto -“Sai anche del giardiniere?”-
-“Cielo, no, era un esempio! Cosa diavolo hai combinato con il mio giardiniere?”-
-“Non è questo il punto! Hai idea di quanto sia stato difficile non poterne parlare con nessuno in questo posto disperato? E tu lo sapevi!”-
-“No ragazzo, questo non te lo concedo, non puoi pretendere che sia io a rivelarti chi sei e chi ami.”-
-“Nonna, io mi sono sentito così solo per anni! Lo capisci?”-
-“Sì lo capisco. Da anni salite una rampa di scale, così io mi trovo a gestire la depressione di tua madre, i problemi economici di tuo padre, la dislessia di tuo cugino, il tradimento di tuo nonno. Pensi che abbia lottato casualmente contro i tuoi genitori per convincerli a iscriverti in un college nell’emisfero australe? Vedevo che annaspavi sì, e immaginavo che il Sudafrica, così lontano e diverso, ti avrebbe salvato dall’annegamento esistenziale. Dov’è la mia rampa di scale? Quella verso cui io possa trovare le risposte e il conforto?”-
Sussurro avvilito -“Scusami…”-
Lei inspira profondamente volgendo lo sguardo verso la finestra aperta.
Le chiedo -“Sei infelice nonna?”-
Calma, volta all’esterno -“Sono stata felice, mi considero fortunata.”-
-“Ti ho delusa?”-
Riporta lo sguardo verso me accennando un sorriso -“Direi proprio di no.”-
-“Anche mamma e papà lo sanno?”-
-“Penso di sì, ma fingono di non saperlo…fingono male. Sono cattolici, dobbiamo capirli oltre a compatirli. Afflitti e colpevoli per essere al mondo. Quando eri piccolo biasimavano le tue stranezze, allora gli ricordavo, battezzate vostro figlio con il nome Fax e pretendete un cristiano sobrio? Ma io amavo le tue stranezze, e anche loro dopo tutto, ne sono certa.”-
-“Io non ne sono così certo.”-
-“Anche io mi adiravo con Fred per le sue follie. Lo crescevo come un gentiluomo, ma lui tornava con gli abiti strappati per aver saltato le staccionate o ferito per una sfida di tiro alla fionda. Gli rinfacciavo di essere la mia delusione e dicevo che lo avrei sostituito con i figli delle mie amiche. Potessi riportarlo in vita per sentirgli raccontare quella sassaiola, non rinuncerei a una delle sue follie. I figli non ci appartengono e non sempre ci somigliano, ma non rinunciamo a loro senza pena.”-
Il peso emotivo mi sta opprimendo, il mio coming out si è trasformato in un campo di mine inesplose. Trovo insopportabile l’idea che lei sia infelice.
La nonna lo intuisce e smorza -“A proposito, i tuoi genitori non versano la retta a un prestigioso ateneo perché ti esprima come un programma televisivo scadente.”-
-“Cosa ho detto?”-
-“Quel termine con cui ti saresti definito…”-
-“Gay?”-
-“Appunto! L’unico legittimato a presentarsi così è Walter Gay, il nipote di Solomon Gills della Wooden Midshipman. Nel tuo caso cosa vorrebbe significare?”-
-“Quello che sono!”-
-“Tu non sei affatto QUELLO e non mi piace che ne faccia un biglietto da visita. Sei un giovane uomo pieno di qualità e di esperienze. Vivi, lascia che le persone scoprano tutto di te, anche quell’aspetto, non solo quello.”-
-“Ma come avrei dovuto comunicartelo?”-
-“Beh, per esempio, il campus è un luogo pieno di studenti dal mondo, il ragazzo che frequento è un rispettabile canadese di origini scozzesi…”-
-“Lui non è affatto un canadese e come sai che c’è un ragazzo?”-
-“Hai vent’anni, è ovvio che ci sia un tormento sentimentale…spero con un soggetto rispettabile, pur non canadese.”-
-“In realtà, pur non canadesi, sono due i soggetti.”-
-“Fax! Hai forse preso residenza in Primrose Hill? Non costringermi a ritirare la tua iscrizione al college.”-
-“Ma no, ho una storia con un ragazzo sudafricano, però vibro per lo studente nigeriano dell’alloggio sopra il mio.”-
-“È orribile che tu stia con il sudafricano e pensi al nigeriano.”-
-“Tranquilla, sono fedele…Il ragazzo nigeriano è eterosessuale.”-
-“Giovanni Senza Terra! I tuoi tormenti sentimentali sono disastrosi!”-
-“Lo so, ma lui non perde occasione per rimanere a torso nudo! Dovresti vederlo dopo aver fatto jogging quando si sfila la canottiera e…”-
-“Devo rammentarti che sono tua nonna e che stiamo consumando un tè pregiato?”-
-“Vedo anche un pasticcio di maiale su questa tavola…e ti assicuro nonna, quel nigeriano è un grosso pasticcio. Quanto al maiale…”-
-“Può bastare! Per te niente pasticcio. Pane imburrato o un uovo…sodo? Tutto suona così equivoco.”-
Sta succedendo davvero, rido con la nonna dei miei sussulti ormonali per Enoch, il nigeriano palestrato. Scelgo di omettere qualche dettaglio, come l’età del sudafricano che frequento più adulto di quindici anni. Non le racconto di aver indossato il kilt che lei mi ha fatto confezionare per soddisfare una fantasia del mio ragazzo in un boschetto di jacarande.
Due ore dopo faccio per congedarmi, quando lei
-“Appurato che ribolli come qualunque ventenne, ti esorto all’autocontrollo Fax. Il talamo nuziale del Duca di Clarence si era rivelato un capezzale a causa della sua concupiscenza, PRIMA dell’incoronazione.”-
-“Tranquilla nonna, custodirò lo scettro.”-
-“Per non citare l’onta che travolse Lord Montagu, affascinato dalle divise militari della RAF.”-
-“Come dargli torto?”-
-“Non di meno l’affollamento coniugale di Lord Mountbatten che ci costò l’India…”-
-“Ti prometto di non minacciare Gibilterra con l’elastico delle mie braghe!”-
Reclina il capo accigliata, ma io sono sereno e soddisfatto. Non uno, TRE aneddoti dagli annali Royals! Il mio coming out è ufficialmente una normale questione di famiglia protocollata dal suo membro più autorevole.
Prima di salutarla propongo -“Io non so indicarti una rampa di scale verso cui salire per il conforto, ma se domani pomeriggio vuoi scendere gli scalini verso di me, ti aspetto per una passeggiata lungo la scogliera di Prince George.”-
Lei, sorridente -“Molto volentieri.”-
Volo di ritorno per Johannesburg. Trovo nella tasca del bagaglio una piccola busta da lettera contenente un biglietto “Scegli sempre, Fax. Scegli chi e dove vuoi essere. Una scelta mancata si rivela nel tempo più dannosa di una decisione errata. Sii folle(mai stupido)ma sopravvivi alle tue follie per poterle raccontare i giorni successivi. La nonna Laura”.
“Un tè con la nonna (corretto al coming out)” tratto da “A life in a Fax” di Fax Mac Allister
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