Ei fu Fax, precoci prove di coccodrillo

Soddisfatti dall’esito del concepimento di un primogenito nel 1979, i coniugi Mac Allister riattivano la filiera pelvica nel 1982 per assortire di una secondogenita il nucleo familiare. Delusi quando l’ecografo spoilera la presenza di un paio di testicoli fluttuanti nelle brodaglie amniotiche. I perforanti proclami bellici di Margaret Thatcher, a difesa delle Falkland, valicano l’ambulacro uterino sollecitando il feto a una posizione patriottica che si manifesta con distacco della placenta e parto prematuro. La nascita di Fax Mac Allister coincide con l’anniversario dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, della Lotta di Liberazione eritrea e del golpe libico di Gheddafi. Cresce in un contesto italo britannico a fosche tinte afro-coloniali. Sviluppa dimenticabili velleità artistiche dalle quali si annovera la considerazione del maestro di danza “È talmente fuori tempo quello che fai che diventi scenicamente interessante.” Diventa attivista culturale per la Dickens Fellowship. Sogna di condurre un morning show radiofonico ma inforca le cuffie nei call center. Cura ad Asmara degli studi etimologici sul proprio nome per scoprire che tigrina è la matrice, ma littoria la contaminazione. Seguono stagioni di smarrimento identitario ed espiazione di ataviche colpe che lo legano al popolo eritreo. Nel 2025 subisce una rapina a Durban. Lo zaino sottratto contiene l’unica copia della sua autobiografia. Diserta la scena sociale. Quattordici anni dopo, uno speaker di Kovsie FM trova il manoscritto fra le riviste in una lavanderia a Bloemfontein. Legge le pagine in diretta radio per rintracciarne l’autore. Hollywood, Bollywood e Nollywood si contendono i diritti. Fax viene trovato in una stanza dell’Hotel Torino a Massawa. L’autopsia sentenzia: decesso avvenuto cinque anni prima nel corso di attività onanistica ispirata da un cartonato a dimensioni reali di Vin Diesel.

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LASAGNE D’AFRICA

La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta coincidano con il mio passato.

I lapilli di ragù eruttano dalla bocca di un panciuto signore dalla vocalità stentorea e planano sulla sua canottiera che disegna una cartografia untuosa.
La rigogliosa peluria pettorale bruna che emerge dalla scollatura arresta il moto gravitazionale di alcuni detriti di manzo in salsa di pomodoro. Compiaciuto alterna la masticazione del bolo di lasagna all’intonazione del motivo “Si va con Mussolini per l’Africa Oriental, abbiam con gli abissini molti conti da saldar…” ritmando vigorose percussioni della mano sopra il ginocchio monolitico ugualmente villoso.
Esercito uno sforzo di alienazione acustica e visiva per neutralizzare quella presenza. Inutile. Le vibrazioni aggressive pervadono la sala da pranzo della Trattoria Mafalda, di cui siamo gli unici due avventori. Volgo lo sguardo alla finestra che si affaccia su una strada di Addis Abeba, oppressa dall’edilizia residenziale moderna. La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Le tende sdrucite, come cataratte esauste, offuscano la visuale polverosa su un mondo che non ha compreso. Le crepe nelle mattonelle ottagonali del pavimento insinuano la nobiltà dei gigli stilizzati . Non mi sorprenderei se la demolizione avvenisse in questo momento a opera di un costruttore indiano con noi accomodati ai tavoli, accartocciati nel rudere che sorregge alle pareti ritratti celebrativi dei Savoia e impettiti gerarchi fascisti. Sono alla ricerca delle tracce che hanno segnato la storia della mia famiglia e, drammaticamente, sconvolta la genealogia. Le stesse che sedimentano nel mio nome. A differenza dell’apparente dolcezza di Asmara, Addis Abeba si manifesta faticosa e dolente.
Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta nella trattoria coincidano con il mio passato avito.
Una giovane cameriera etiope, dopo aver estratto il necessario dalla credenza tarlata e sbilenca, percorre la stanza trasportando il vassoio con i piatti e le posate, per apparecchiare il posto che occupo da pochi minuti. Intercetto lo sguardo del raffinato sconosciuto distante pochi metri che tenta di stabilire con me una complicità, quindi sentenzia -“Aò, ste abissine c’hanno er culo che sò dù Ambe. Ce voi morì n’artra vorta sull’Amba Alagi!”-
Segue una risata densa di catarro.
Scorgo la durezza nella mimica facciale della ragazza che liscia le grinze della tovaglia. Spero non mi stia comparando umanamente a quell’uomo mentre rimpiango di aver scelto questo mausoleo della nostalgia littoria per il pranzo. Riconosco al centro del piatto lo sbiadito emblema imperiale dell’Africa Orientale Italiana la cui base riporta solenne “romanamente”. L’usura ha scrostato il muso di uno dei due linguacciuti leoni avvinti al fascio. Dall’altro tavolo irrompe ancora un -“Bella che ce metti dentr’ar sugo pe fallo così bono? Ce sta’n piccantino. C’ho o metti tu eh? Se vede che te piace er friccicore, mannaggia a te.” Ride crasso battendo le mani.
La voce, lo schianto delle membra prodotte da quel soggetto collidono contro i miei denti e i timpani.
Cambio idea rivolto alla cameriera -“Mi scusi, servite solo cucina italiana o si può avere l’injera?”-
Lei in un fluido italiano -“Abbiamo l’injera, certo!”-
-“Ottimo, vada per l’injera! Me la cavo senza le posate.”-
Mi sorride e ritira la forchetta e il coltello. Raggiunge l’ospite in canotta per sparecchiare i suoi resti. Lui -“C’ha i segreti questa. To’o farei vedè io’n gran segreto, ah ah ah.”- Si avvolge il pube con la mano sinistra, tende il braccio destro verso l’alto con le dita della mano unite e le domanda -“O sai fà sto saluto?”-
Lei, imperturbata, reggendo i piatti -“Ho le mani occupate.”-
-“Sempre occupate ce l’hai ste mani, ah ah ah! Tiente libera la bocca pe’cantà, sì va co Mussolini per l’Africa Oriental, c’abbiam co gli abbissini molti conti da saldar…”-
La cameriera si dilegua verso la cucina.
Lui, rivolto a me -“Se sò dimenticati tutto questi. Se nun era pe’i idaliani stavano ancora a magnà banane ne’e capanne de merda e n’groppa ai somari. Mi nonno, mi padre hanno costruito de tutto qui ner fascismo e mo sti abescià se fanno costruì e ferovie dai scinesi. Quei artri culi ggialli.”-
Accosta alla bocca la mano destra a cucchiara e urla verso la porta della cucina -“Aòò, mo’o disci l’ingrediente segreto o c’hai i segreti coi scinesi pure tu? Ah ah ah!”-
Un trepestio stanco e lento proviene da quell’uscio, ne emerge un’anziana donna in abiti amhara con la croce ansata tatuata nel centro della fronte e dei versi dalle sacre scritture incisi sul collo. Si regge a un bastone di legno adunco, nell’altra mano afferra un contenitore per le spezie sul quale è applicata un’etichetta indicatrice del contenuto compilata manualmente.
L’italiano ammutolisce, con un gesto fermo la donna pone rumorosamente sul suo tavolo il contenitore sul quale c’è scritto in stampatello IPRITE. Decisa, lo guarda negli occhi e scandisce
-“NUN CE SIAMO DIMENTICATI DE GNENTE.”-


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MENDING SHADOWS

La mia ombra al sole è lunga quanto un bambino grande, come quelli che fanno la quinta e vanno in gita al Charlotte Lake, ma io ho sei anni. Sto aspettando i miei genitori all’esterno della bottega di Mr.Trinket, il magnano. Quello vende solo ferri, che noia! Ho chiesto a mamma e papà di rifare il nostro gioco. Quando loro usciranno dal bazar fingeremo di non conoscerci, di incontrarci per la prima volta.
La campanella in ottone tintinna e la porta del negozio si apre. Lei indossa un abito colorato svolazzante che le copre le ginocchia, mi piacciono i suoi boccoli morbidi sulle spalle. Lui, che ha gli occhi grandi e i capelli corti e ricci mi chiede -“E tu chi sei?”-
Io, pronto -“Sono un bambino!”-
-“Come ti chiami?”-
-“Fax.”-
Lei, meravigliata -“Che strano nome!”-
Io, compìto -“È un nome africano!”-
Lui- “Da dove vieni?”-
-“Da Asmara!”-
 -“Lontano! Sei arrivato su un cammello?”-
Rido -“No! Ho preso il treno fino a Massawa,poi il bastimento e dopo un digeribile…uun dirigibile!”-
Lei, divertita -“Hai viaggiato tanto! Sei qui da solo?”-
-“Sì.”-
-“E adesso dove vai?”-
-“Non lo so. Voi dove abitate?”-
Lui indica la magione sulla collina di Gardar -“Lassù.”-
Io stupefatto -“Dentro quel castello?”-
-“Proprio lì. Vuoi venire con noi?”-
Io -“Ma per sempre?”-
Lei annuisce sorridente.
Io -“Quindi sono il vostro figlio.”-
Lui -“Sì, per sempre…”-
Saltello affiancandoli -“Va bene, andiamo!”-
Li tengo per mano. Il sole pallido estende le nostre ombre sul selciato muschioso. Loro sono Selva e Abel, io sono Fax, quindi sono il loro figlio…per sempre.
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“Achille Fabbro, un nome italiano, ma il cognome no.” di Fax Mac Allister

Massawa è deserta, decrepita. La amo.
Misuro i respiri, temo che un sussulto possa sbriciolarla.
L’aria ferma è densa dei fantasmi di un passato fastoso, festoso e nefasto.
L’Hotel Torino mi osserva silente con il biasimo dell’adulto che conosce la vita.

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Alle 8 della sera il sole allenta la morsa rovente.
È la vigilia della mia partenza. Massawa è deserta, decrepita. La amo.
Misuro i respiri, temo che un sussulto possa sbriciolarla.
L’aria ferma è densa dei fantasmi di un passato fastoso, festoso e nefasto.
L’Hotel Torino mi osserva silente con il biasimo dell’adulto che conosce la vita.
La ragazza del baretto Isola Verde ci porta due birre Melotti al tavolino sbilenco esterno. Dal juke box riverbera gracchiante il ritornello italo disco “Buonasera, buonasera signorina, buonasera signorina ciao ciao…”
Achille sorseggia lentamente, poi riprende a raccontare in italiano
-“Mia madre era di Adi Ugri, mio padre era un soldato del duce.
Quando sono nato lui mi ha dato un nome italiano, ma il cognome no.
Poi è partito. È andato a Roma. Forse stava male e voleva curarsi.
Non è più tornato. non so come mai.
Ho un nome italiano, il cognome no. Allora me lo sono dato io un cognome italiano. Lavoro il ferro, sono bravo sai! Trasformo il ferro in cose bellissime. Quindi il mio cognome è Fabbro.
Se vuoi spedirmi una lettera puoi scrivere sulla busta “Per Achille Fabbro”. Appena arriva a Massawa me la portano, mi conoscono tutti!”-

-“Domani torno a casa Achille. Ti manderò delle cartoline dal Sudafrica.”-

-“E in Italia?Torni anche in Italia?”-

-“Forse, per pochi giorni, tra qualche mese.”-

Achille sussurra come evocando un segreto -“In Italia…”-

-“Tra un anno sarò nuovamente qui a Massawa.Ci rivediamo a Ottobre.C’è qualcosa che posso portarti dall’Italia?”-

Lui illuminandosi -“Una pipa!”-

-Vuoi fumare?”-

-“Non c’ è niente di male! Sì, una pipa. Quando ero piccolo spiavo i signori italiani che fumavano all’ombra. Mi nascondevo lì (indica il bivio che apre ai Portici Savoia). Quanto erano eleganti non lo immagini! Le giacche stirate e certi cappelli. Sembrava una sfilata dei principi di Piemonte. Uscivano a passeggiare a quest’ora e si sedevano lì ai tavoli dei bar. Forse anche mio padre fumava una pipa. Non lo so, io non lo conosco. Se ne sono andati tutti…”-

MASSAWA. OTTOBRE. 12 MESI DOPO.
Cammino al crepuscolo verso l’Hotel Torino lungo la banchina che congiunge l’isola di Taulud a quella di Massawa. Emano l’aroma del repellente anti zanzare . Tutto è identico, immobile nella sua torrida letargia. L’inerzia afosa mi avvolge e rallento il moto.
Anche il mare sembra essersi arreso e ribolle in un impercettibile sciabordio. Compiaciuto nel sentirmi una parte di quel tutto irreale avanzo con gli occhi socchiusi, quando un alito sussurra il mio nome
-“Fax!”-
Achille siede solitario su un muricciolo. dimostra 200 anni ma conserva lo stupore infantile nello sguardo. -“Fax, sei tornato!”-

Si alza, mi abbraccia e poggia le mani leggere e grinzose sul mio viso, quasi ad accertarsi non si tratti di una proiezione. Ride e applaude.
Siedo con lui sul muretto

-“Sì Achille, come promesso un anno fa.”-

-“Un anno? Non può essere!”-

-“È stato a Ottobre, ricordi?”-

-“Non dirmelo. Oggi è Ottobre? Oh, sono vecchio di un altro anno””-
Ride.

-“Ho un regalo per te.”-
Sfilo la piccola sacca dalle spalle da cui estraggo un cofanetto in sughero .Sul coperchio è dipinta una Torino risorgimentale.
Gliela porgo.
Achille esita -“Per me?”-
Solleva il coperchio, la scatola contiene una Bent Apple in radica e due differenti qualità di tabacco. Achille trema incredulo, si contorce le dita.
Intuisco che aveva rimosso la nostra conversazione e non si capacita del materializzarsi di un desiderio. -“Davvero è per me?”-

-“Sì, per Achille Fabbro…”-

Estrae la pipa, la ammira reggendola sul palmo delle mani come cullandola e confida -“Ho aspettato tutta la vita che l’Italia tornasse da me, e oggi l’Italia è tornata…”-

La mia vista si appanna, voglio trattenere le lacrime nel rispetto del bambino meticcio dal nome italiano (il cognome no) che forse il tempo di piangere raramente se lo è concesso.
Achille posa una mano sopra la mia -“Sei un bravo figlio.”-

Le lacrime mi vincono e Massawa si irradia di una luce liquida. Respingo il turbamento emotivo, gli propongo -“Potresti fumare nel bar sotto i Portici Savoia, quello è il luogo giusto.”-

Effimere sagome di fumo librano nell’aria dal porticato moresco eroso dalle crepe. I nugoli profumati vestono l’eco dei trattenimenti danzanti, dell’elegante struscio serale esibito con provinciale alterigia, delle note dei valzer.
Quei giochi di vapore solleticano la memoria degli archi, fatiscenti spettatori evocativi di un regno lontano e di un passato coloniale perduto.
Scruto silenzioso il panorama. Mentalmente associo la toponomastica originale alle strutture rovinose imparata su un quaderno illustrato appartenuto a mio nonno: Lungomare Umberto I, le banchine Regina Elena e Salvago Raggi, Via Roma, Piazza Principi di Piemonte…”-

Achille sbuffa un altro fumoso disegno, e mirando orgoglioso la pipa
-“Non sai quanto l’ho desiderata nel mio cervello. Sembro un signore italiano elegante?”-

Gli sorrido -“Sembri un signore eritreo onesto.”-

Ad Achille, ai Meticci d’Eritrea, ai loro cugini italiani lontani.
Fax Mac Allister
Tratto da -Quaderni massawini- “A life in a Fax” di Fax Mac Allister Copyright ©
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CONVERSIONI (quando una catechista cattolica svela il suo passato in Abissinia)

-“Addis Abeba significa nuovo fiore. Quanto amavo il sole, il profumo dell’aria. Nel pomeriggio la luce filtrava dalle persiane chiuse, mettevo un vinile sul grammofono e danzavo in sottoveste nella mia camera. Non ero una brava danzatrice, ma dopo aver raggiunto un posto in Africa tutto sembrava possibile e sognavo di esserlo. Non immaginavo che l’Impero sarebbe crollato. Ho smesso di danzare da allora…”

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