Ei fu Fax, precoci prove di coccodrillo

Soddisfatti dall’esito del concepimento di un primogenito nel 1979, i coniugi Mac Allister riattivano la filiera pelvica nel 1982 per assortire di una secondogenita il nucleo familiare. Delusi quando l’ecografo spoilera la presenza di un paio di testicoli fluttuanti nelle brodaglie amniotiche. I perforanti proclami bellici di Margaret Thatcher, a difesa delle Falkland, valicano l’ambulacro uterino sollecitando il feto a una posizione patriottica che si manifesta con distacco della placenta e parto prematuro. La nascita di Fax Mac Allister coincide con l’anniversario dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, della Lotta di Liberazione eritrea e del golpe libico di Gheddafi. Cresce in un contesto italo britannico a fosche tinte afro-coloniali. Sviluppa dimenticabili velleità artistiche dalle quali si annovera la considerazione del maestro di danza “È talmente fuori tempo quello che fai che diventi scenicamente interessante.” Diventa attivista culturale per la Dickens Fellowship. Sogna di condurre un morning show radiofonico ma inforca le cuffie nei call center. Cura ad Asmara degli studi etimologici sul proprio nome per scoprire che tigrina è la matrice, ma littoria la contaminazione. Seguono stagioni di smarrimento identitario ed espiazione di ataviche colpe che lo legano al popolo eritreo. Nel 2025 subisce una rapina a Durban. Lo zaino sottratto contiene l’unica copia della sua autobiografia. Diserta la scena sociale. Quattordici anni dopo, uno speaker di Kovsie FM trova il manoscritto fra le riviste in una lavanderia a Bloemfontein. Legge le pagine in diretta radio per rintracciarne l’autore. Hollywood, Bollywood e Nollywood si contendono i diritti. Fax viene trovato in una stanza dell’Hotel Torino a Massawa. L’autopsia sentenzia: decesso avvenuto cinque anni prima nel corso di attività onanistica ispirata da un cartonato a dimensioni reali di Vin Diesel.

tratto da “A life in a Fax” di Fax Mac Allister Copyright © All right reserved Tutti i diritti sono riservati. È vietata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, dei contenuti inseriti nel presente racconto, ivi inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, diffusione o distribuzione dei contenuti stessi mediante qualunque mezzo stampa, audio, video piattaforma tecnologica, rappresentazione scenico-teatrale, supporto o rete telematica, senza previo accordo con Fax Mac Allister 

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LASAGNE D’AFRICA

La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta coincidano con il mio passato.

I lapilli di ragù eruttano dalla bocca di un panciuto signore dalla vocalità stentorea e planano sulla sua canottiera che disegna una cartografia untuosa.
La rigogliosa peluria pettorale bruna che emerge dalla scollatura arresta il moto gravitazionale di alcuni detriti di manzo in salsa di pomodoro. Compiaciuto alterna la masticazione del bolo di lasagna all’intonazione del motivo “Si va con Mussolini per l’Africa Oriental, abbiam con gli abissini molti conti da saldar…” ritmando vigorose percussioni della mano sopra il ginocchio monolitico ugualmente villoso.
Esercito uno sforzo di alienazione acustica e visiva per neutralizzare quella presenza. Inutile. Le vibrazioni aggressive pervadono la sala da pranzo della Trattoria Mafalda, di cui siamo gli unici due avventori. Volgo lo sguardo alla finestra che si affaccia su una strada di Addis Abeba, oppressa dall’edilizia residenziale moderna. La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Le tende sdrucite, come cataratte esauste, offuscano la visuale polverosa su un mondo che non ha compreso. Le crepe nelle mattonelle ottagonali del pavimento insinuano la nobiltà dei gigli stilizzati . Non mi sorprenderei se la demolizione avvenisse in questo momento a opera di un costruttore indiano con noi accomodati ai tavoli, accartocciati nel rudere che sorregge alle pareti ritratti celebrativi dei Savoia e impettiti gerarchi fascisti. Sono alla ricerca delle tracce che hanno segnato la storia della mia famiglia e, drammaticamente, sconvolta la genealogia. Le stesse che sedimentano nel mio nome. A differenza dell’apparente dolcezza di Asmara, Addis Abeba si manifesta faticosa e dolente.
Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta nella trattoria coincidano con il mio passato avito.
Una giovane cameriera etiope, dopo aver estratto il necessario dalla credenza tarlata e sbilenca, percorre la stanza trasportando il vassoio con i piatti e le posate, per apparecchiare il posto che occupo da pochi minuti. Intercetto lo sguardo del raffinato sconosciuto distante pochi metri che tenta di stabilire con me una complicità, quindi sentenzia -“Aò, ste abissine c’hanno er culo che sò dù Ambe. Ce voi morì n’artra vorta sull’Amba Alagi!”-
Segue una risata densa di catarro.
Scorgo la durezza nella mimica facciale della ragazza che liscia le grinze della tovaglia. Spero non mi stia comparando umanamente a quell’uomo mentre rimpiango di aver scelto questo mausoleo della nostalgia littoria per il pranzo. Riconosco al centro del piatto lo sbiadito emblema imperiale dell’Africa Orientale Italiana la cui base riporta solenne “romanamente”. L’usura ha scrostato il muso di uno dei due linguacciuti leoni avvinti al fascio. Dall’altro tavolo irrompe ancora un -“Bella che ce metti dentr’ar sugo pe fallo così bono? Ce sta’n piccantino. C’ho o metti tu eh? Se vede che te piace er friccicore, mannaggia a te.” Ride crasso battendo le mani.
La voce, lo schianto delle membra prodotte da quel soggetto collidono contro i miei denti e i timpani.
Cambio idea rivolto alla cameriera -“Mi scusi, servite solo cucina italiana o si può avere l’injera?”-
Lei in un fluido italiano -“Abbiamo l’injera, certo!”-
-“Ottimo, vada per l’injera! Me la cavo senza le posate.”-
Mi sorride e ritira la forchetta e il coltello. Raggiunge l’ospite in canotta per sparecchiare i suoi resti. Lui -“C’ha i segreti questa. To’o farei vedè io’n gran segreto, ah ah ah.”- Si avvolge il pube con la mano sinistra, tende il braccio destro verso l’alto con le dita della mano unite e le domanda -“O sai fà sto saluto?”-
Lei, imperturbata, reggendo i piatti -“Ho le mani occupate.”-
-“Sempre occupate ce l’hai ste mani, ah ah ah! Tiente libera la bocca pe’cantà, sì va co Mussolini per l’Africa Oriental, c’abbiam co gli abbissini molti conti da saldar…”-
La cameriera si dilegua verso la cucina.
Lui, rivolto a me -“Se sò dimenticati tutto questi. Se nun era pe’i idaliani stavano ancora a magnà banane ne’e capanne de merda e n’groppa ai somari. Mi nonno, mi padre hanno costruito de tutto qui ner fascismo e mo sti abescià se fanno costruì e ferovie dai scinesi. Quei artri culi ggialli.”-
Accosta alla bocca la mano destra a cucchiara e urla verso la porta della cucina -“Aòò, mo’o disci l’ingrediente segreto o c’hai i segreti coi scinesi pure tu? Ah ah ah!”-
Un trepestio stanco e lento proviene da quell’uscio, ne emerge un’anziana donna in abiti amhara con la croce ansata tatuata nel centro della fronte e dei versi dalle sacre scritture incisi sul collo. Si regge a un bastone di legno adunco, nell’altra mano afferra un contenitore per le spezie sul quale è applicata un’etichetta indicatrice del contenuto compilata manualmente.
L’italiano ammutolisce, con un gesto fermo la donna pone rumorosamente sul suo tavolo il contenitore sul quale c’è scritto in stampatello IPRITE. Decisa, lo guarda negli occhi e scandisce
-“NUN CE SIAMO DIMENTICATI DE GNENTE.”-


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CONVERSIONI (ATTO II) Memorie di un giovane apostata nel Colinshire – Fax Mac Allister –

Annabel Spencer si era guadagnata un posto comodo in paradiso contribuendo economicamente a restaurare il tetto della chiesa. Poi se ne assicurò uno all’inferno minacciando il reverendo di scoperchiare il tetto nuovo, quando lui le preferì Greta Mac Donald come responsabile dell’associazione filantropica.

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Conversioni (ATTO II)

seguito di https://faxmacallister.wordpress.com/2019/05/09/conversioni-quando-una-catechista-cattolica-svela-il-suo-passato-in-abissinia/

La personal trainer per l’addestramento all’anglicanesimo fu mia nonna Laura Mac Allister, entusiasta per la sterzata dottrinale in direzione Canterbury.
Entusiasmo che io e Melissa mettevamo alla prova con domande tipo

–“Cosa mangiava Enrico VIII Tudor per essere così grasso? E quanto pesava? Quanto avrà speso per le bomboniere dei sei matrimoni? Tu c’eri al matrimonio di Maria Stuarda?”­-
Dopo un anno di training la Chiesa Protestante d’Inghilterra, per mano del Pastore Grimsson di Gardar, era pronta ad accoglierci come membri della comunità.
Dopo il suicidio di Agata Perego, sull’isola si chiacchierò molto della nostra conversione. La stampa locale trattava la faccenda alla stregua di un acquisto nel calciomercato, i notiziari vendevano il doppio delle copie quando i titoli esacerbavano gli animi fra le due nazionalità. Per evitare i corsi di recupero anglicani mio fratello John Mark scelse di rimanere cattolico come i nostri genitori. Come spesso accade, il dipanarsi della realtà differì da quello che avevo proiettato nell’immaginazione.
La prima ufficiale Domenica da protestante, si rivelò onerosa quanto quelle sofferte fra i cattolici. Mia madre scelse i nostri abiti per la funzione. A Melissa concedeva di sistemare sui capelli il cerchietto con la farfalla di seta, mentre a me negava di mettere il cilindro su cui avevo incollato una bandierina in poliestere del Regno Unito. A nulla servì negoziare sulla rinuncia del vessillo per abbuonarmi il cappello.Mi liquidò dicendo che era pretenzioso e ridicolo, che avremmo dovuto tenere un basso profilo per non favorire i pettegolezzi, che sarebbe stata creativa nell’assegnarmi una punizione per aver rovinato il cilindro; almeno quanto lo ero stato io conficcando la bandiera alla tesa.
I nostri genitori ci scortarono fino al portone di ingresso della Saint Thomas.
Davanti alla chiesa dal tetto in torba era appostato un fotografo della stampa e decine di italiani curiosi che ci fissavano con sguardo torvo, uno di loro sosteneva con le braccia sollevate un ritratto di Agata Perego. Al nostro passaggio, Sorella Ippolita da Tripoli aprì la sua sputacchiera metallica a scatto simile a un portacipria e vi sputò dentro austera. Abel e Selva li salutarono composti con un cenno, Melissa li affrontò con alterigia incoraggiata dal suo elegante cerchietto, io, suggestionato dal plotone sprezzante e dalla gigantografia di Agata, inciampai.
Prima di proseguire per la loro parrocchia i nostri genitori insistettero perché aspettassimo l’inizio della funzione all’interno della Saint Thomas, lontani da occhiate arcigne e obiettivi. Scelsi quattro posti a sedere vicino alla finestra, ci avrebbero raggiunti i nostri cugini Lavinia e Will. Mia sorella salutava una compagna di classe. Diversamente dalla Santa Maria, la Saint Thomas era luminosa e sgombra da paramenti, l’unico crocefisso stava sull’altare. Alla messa cattolica vigeva la separazione sessuale, maschi e femmine dovevano sedere su due file di banchi distinte.
Quella regola non era contemplata dagli anglicani, e a ragion del vero del fogliame mi colpì in pieno viso. Riaperti gli occhi vidi che Mrs. Annabel Spencer aveva parcheggiato il suo maestoso fondoschiena, ignara di avermi schiaffeggiato con l’arbusto che penzolava dal cappello. I suoi copricapo, farciti di frutta e fronde, la facevano sembrare reduce di un tamponamento col camioncino di Mr. Buttle il verduraio.
Supponevo che la corporatura schiacciata e rotonda fosse dovuta alla pletora di cianfrusaglie che le pesava sulla testa. Il Pastore Grimsson invitava i fedeli alla moderazione, ma Annabel Spencer si era guadagnata un posto comodo in paradiso contribuendo economicamente a restaurare il tetto della chiesa. Poi se ne assicurò uno all’inferno minacciando il reverendo di scoperchiare il tetto nuovo, quando lui le preferì Greta Mac Donald come responsabile dell’associazione filantropica.
Annabel era sposata con Lord Philip Spencer, proprietario di una miniera di diamanti in Liberia. Tutti nel Colinshire dicevano di lei che era una zoticona arricchita dal matrimonio. Ed è vero. Ma differenza degli altri arricchiti dell’isola, ad Annabel Spencer non era mai interessato assimilare il galateo per occultare le sue origini modeste.
I denigratori sapevano che quella donna non padroneggiava l’arte della diplomazia, e lo sapevo anch’io. Una volta da ubriaca mi aveva scambiato per il suo fratello più anziano che vive nel Copperbelt, e mi accusò di aver pisciato sul loro presepe nel Natale del 1944. Certo non avevo rotto con dei cattolici invasati per trattenermi con un’alcolizzata protestante.
La chiesa cominciava a riempirsi.Nel momento in cui scelsi il posto libero dove fuggire, la voce di Annabel echeggiò squillante ­

-“ Per la sedia di Edoardo! Ma tu sei Tex Mac Allister!”-

L’attenzione degli astanti fu richiamata verso me. Volevo morire, e speravo in una morte rapida, ma prima di estinguermi trovai sommessamente la forza per difendere un’ ultima volta il mio nome –“ Io, mi chiamo Fax.”­-
Lei ­-“ Oh è vero…che orrore! Ah ah ah!”­-
La risata reboante sfociò in un accesso di tosse grassa, la frasca incastonata sul suo cappello oscillava convulsa. Mrs. Spencer preda degli spasmi, si percosse il torace come un gorilla beringei dell’Uganda.
Interpretai il malore come un gesto di solidarietà da parte del Dio anglicano, che puniva lei per aver offeso il mio nome, e strizzava l’ occhio a me, riconoscente per aver rassegnato le dimissioni al Dio cattolico. Annabel, in apnea, rovistava dentro la borsa senza venirne a capo, quindi la capovolse rovesciandone il contenuto. Chincaglierie di ogni sorta rotolarono sulle assi di legno del pavimento.
Violacea in volto, con voce strozzata, agonizzò –“Le caramelle, raccogli le caramelle!”­-
Pensai di abbandonarla alla morte rantolante, rispettoso del disegno tracciato dal Dio anglicano a cui ero devoto da 3 secondi. Poi, valutato che troppi fedeli fossero testimoni dell’omissione di soccorso, la assecondai e le porsi da terra una delle palline avvolte in carta crespa mogano. Annabel ruminandola beneficiò dell’effetto sedativo, mentre il fogliame sul cappello accusava sbilenco il passaggio di un ciclone tropicale. Diede una spolverata alle pieghe dell’abito rosa confetto per ripristinare una parvenza decorosa, e risorta dal catarro come una fenice dalle sue ceneri, propose
-­“Se mi aiuti a raccogliere le cose avrai una caramella anche tu.”­-
Non volevo aiutare quella troglodita , ma sospettando che non avrebbe incassato un rifiuto, mi chinai carponi per recuperare il suo ciarpame. Con le natiche pasciute comodamente incollate al posto, dirigeva le manovre  –“Non dimenticare niente, il fazzoletto, è finito sotto i piedi di Mr. Higgins, e vedo una moneta sotto il banco…no, non là! Il banco nella fila di fianco.”­-

-“Se vado fin lì per raccogliere una moneta mi vedranno tutti!”-­
-“Così tutti sapranno quanto rispetti il denaro, anche quello di piccolo taglio. Avanti ragazzo non farmi discutere qui in chiesa.”-­
Non c’era paio d’occhi che non sorvegliasse la mia disperata operazione di raccolta (eccetto il paio di Sir. Barrett, rimasto guercio sotto lo schianto di una mongolfiera a Rochester). Pensavo che la prima Domenica alla Saint Thomas non potesse andare peggio, quando fui abbagliato dalla scarica luminosa di un flash. Il fotografo appostato prima all’esterno mi aveva immortalato strisciante , allungato al suolo per afferrare un miserabile penny.
Il nobile proposito di mantenere un basso profilo nella nuova chiesa naufragò penosamente nel fiume di brandy che Annabel aveva tracannato per colazione. Grazie a quella foto poco lusinghiera la stampa locale mi assegnò il podio per la posa più ingloriosa. L’anno successivo, in assenza di scoop a chilometro zero, fui scalzato da Sarah Ferguson la Duchessa di York, immortalata a succhiare l’alluce di un miliardario texano a Saint Tropez.
Come promesso Mrs. Annabel Spencer mi regalò una delle caramelle raccolte, ma non sarebbe bastato il pacchetto azioni di una multinazionale dolciaria per risarcire la mia dignità.
Le note di “The Lord Bless You And Keep You” si innalzarono dalle canne dell’organo, Annabel fece scempio della melodia con la sua voce.
Durante il sermone del pastore Grimsson, conscio di commettere un peccato di gola, scartai furtivamente la caramella e la infilai in bocca. Trasgressione di cui scontai una pena. Quali leccornie potrebbe custodire la borsetta di un soggetto come Mrs. Spencer, se non le caramelle ripiene di rum? Le mie fauci furono investite da un intenso aroma di liquore, un conato richiamò la colazione. Prima che tè e muffin si riproponessero chiusi gli occhi, strinsi i pugni e bloccai il rigetto, fetido di botte invecchiata.
Nel momento della stretta di mano fra fedeli in segno di pace, Annabel si voltò verso me e mi colpì accecandomi una seconda volta con il fogliame sporgente dal cappello. Io mi riparai gli occhi frustati con le mani, lei indignata

–“Vuoi negarmi una stretta di mano? Quei cattolici non ti hanno insegnato proprio niente!”-­

Stremato, al termine della messa mi trattenni alla Saint Thomas per la scuola domenicale con Mrs. Edna Grimsson, la moglie del pastore vistosamente incinta. La nuova catechista evidenziò la diversità dei miei tratti mediterranei, paragonati a quelli britannici

–“Da oggi siede con noi Fax, i suoi capelli e i suoi occhi sono più scuri dei nostri, ed è stato cresciuto dai cattolici, ma nella nostra chiesa non ammettiamo discriminazioni, il Signore ci ama per quello che siamo.”­-

Tutti i bambini mi fissarono come fossi stato allevato da un branco di lupi, o come un dromedario che sfila per le strade di Oslo.
Sissi Brown, la figlia del pediatra, chiese a Mrs. Grimsson –“Quindi se vostro figlio avrà i capelli e gli occhi neri, tu e il reverendo sarete contenti?”-

­
-“Ecco, io e il reverendo abbiamo capelli e occhi molto chiari. Se il bambino fosse scuro, mio marito avrebbe ragione di essere più sospettoso che contento!”-­
Una fila di espressioni smarrite investì la catechista che glissò -­“Va bene! L’argomento era un altro, Fax benvenuto fra gli anglicani!”­-
Incalzò Ben Brown, il gemello di Sissi –“ E se vostro figlio vuole essere cattolico, voi sarete contenti?”-­
-“Credo che mio marito accetterebbe più volentieri un figlio scuro che uno cattolico!”­-
Quindi, intervenne Evelyn Darling –“Perché è meglio essere protestanti?”-

­
Rispose mia cugina Lavinia –“Perché altrimenti lei non poteva essere la moglie del prete!”­-
Poi Mrs. Grimsson –“ Per esempio! E anche perché il tanfo di incenso della messa cattolica è una congiura sulle nausee in gravidanza.”-
Concluse Thomas Preston, il figlio dell’oste –“ Ma se un prete cattolico vuole diventare anglicano, deve andare a letto con una donna?”­-
Mrs. Grimsson, istericamente  –“E’ il momento di cantare! Suonerò l’organo per voi!”­-
E le strofe del “God Save the Queen” invocarono la salvezza di Sua Maestà e di una catechista nel panico. Non potevo crederci, quella conversazione aveva realmente avuto luogo durante la scuola domenicale! Al catechismo cattolico, per una domanda molto meno allusiva, Agata Perego aveva purificato la lingua di Ottavio Ranzi facendogli leccare una saponetta di Marsiglia per il bucato a mano.
La nostra conversione aprì localmente aspri dibattiti teologici e culturali fra nazionalità. L’annosa controversia gulliveriana sul corretto metodo di rottura delle uova avvampava ancora gli umori delle fazioni opposte. Io mi interrogavo poco sui dogmi dell’assunzione in cielo di Maria, della fallibilità papale e sulla disputa “purgatorio sì o no?” Esistevano altre priorità nel ruolo di fedele riformato, per esempio la scelta di un buon vicino alla messa. La mia esperienza suggeriva ­“MAI vicino Annabel Spencer”­ Mentre l’ esperienza di Mary Singer allarmava ­“MAI vicino Bernetta Kennedy, soffre di alitosi e ti sussurra a un palmo di naso per tutta la funzione.”
Bastarono poche settimane perché godessi dei vantaggi protestanti: chiamarsi Fax non è una colpa da espiare, non si prega per ore snocciolando patetiche corone del rosario, la chiesa non è tappezzata di icone splatter dei santi in agonia a cui baciare i piedi, nessuno ti impone di farfugliare a memoria litanie senza spiegartene il significato, la confessione dei peccati e la frequenza domenicale sono scelte individuali regolamentate dal motto “tutti possono, qualcuno vuole, nessuno deve”, la catechista sapeva sorridere e raccontare la Bibbia come un’avvincente saga a episodi, grazie ai disegni espliciti fatti da Thomas Preston nel libro del catechismo ho imparato molte cose sul sesso.
Nel corso di un pranzo domenicale al castello, chiesi a mia madre –“Quando mi cambiavi il pannolino tu sapevi parare gli schizzi di pipì?”­ –
Mio padre –“E buon appetito a tutti!”­-
Mia madre­ -“Che argomento Fax…comunque sì, avevo già fatto pratica con tuo fratello. Ma che domanda è?”­-
Io­ -“Ce lo ha insegnato Mrs. Grimsson.”­-

Mio padre –“ La catechista vi insegna a schivare la pipì?”­-
-“Si! A lezione Will ha accusato Thomas di aver fatto una scoreggia, Thomas le fa sempre anche a messa, ma Mrs. Grimsson stavolta lo ha difeso perché la puzza veniva da suo figlio…”-­
Melissa­ -“Il bambino aveva scoreggiato?”­-
Io –“No, aveva proprio fatto la cacca!”-­
Mio padre, seccato –“Nessuno ancora ha detto “emorroidi” a questa tavola, chi si propone?”­-
Mia madre –“Ma il bambino era lì con voi?”­-
Io­ “Eccome, stava in una cesta! Mrs. Grimsson lo ha preso e mentre continuava a raccontarci la saggezza di Salomone, gli ha cambiato il pannolino e ha parato uno schizzo di pipì…Ma i neonati fanno sempre la cacca così sciolta?”­-
John Mark –“Embè, anche tu la fai sempre sciolta.”­-
Melissa –“Ah ah ah!”­-
Mio padre, verso mia madre – “Dimmi che per dessert non c’ è la mousse al cioccolato…”­-
La virata dottrinale suscitò reazioni opposte anche in famiglia. Se la nonna anglicana del castello giubilava discreta, quella cattolica giù al villaggio ordiva esorcismi. Rachele Maneri, vedova di Geremia Maneri, ciabattino di Villabruzzi a 50 chilometri da Mogadiscio, era l’emblema dei cattolici nella Contea, ed era la madre di mia madre. Rachele abitava nell’isolato italiano in una piccola casa di legno, trasformata in un ricettacolo di cimeli sacri. Dozzinali icone dei santi erano affisse alle pareti, dipinte sui bicchieri, ricamate nei centrotavola, riprodotte in plastiche miniature. Rachele e Geremia Maneri, avevano lavorato sodo tutta la vita senza trarre vantaggio dalle fatiche. La modesta casa del villaggio era l’unico compenso di un’esistenza solerte.
I miei nonni materni, come gli altri vecchi italiani del Colinshire, erano profughi deportati negli anni 40 reduci dall’avventura in Africa Orientale. Consapevoli di non poter cambiare con pochi risparmi la loro vita, scelsero di investirli sulla morte in un cimitero lontano dalla Contea.
“Ho conosciuto in vita i vermi di quest’isola, non permetterò di divorarmi anche da morto, il mio cadavere non concimerà la sua terra malvagia. Quando diventerò nutrimento per i vermi, siano vermi estranei a questo posto.”­
Queste le volontà di Geremia che, come da richiesta, nutre dal 1985 italici vermi del camposanto di Sanremo, la sua città di origine. Il desiderio dei miei nonni era tornare in Somalia per concludere le stagioni della vita, progetto che non si è realizzato. La foto scelta per la tomba ritraeva Geremia giovanissimo e felice in Africa, scattata nel giorno del compleanno del duca degli Abruzzi.
-“Fu una grande festa”- ricordavano gli italo somali del Colinshire. “-La torta era enorme, la banda suonava ” Il tango delle capinere”, non mancava niente…Quasi niente, eccetto il festeggiato.”-
L’amato duca Luigi Amedeo di Savoia festeggiava altrove.
Rachele pativa la distanza oceanica dalla tomba di suo marito, avrebbe voluto prendersene cura e pregare davanti al sepolcro, ma condivideva con lui il rifiuto della sepoltura in terra britannica. Il custode del camposanto di Sanremo le inviava su compenso ogni sei mesi una foto aggiornata della lapide di Geremia. Lei mostrava orgogliosa l’album funereo anche a chi non ne facesse richiesta, precisando che il posto di fianco a quella tomba era suo.
Pur godendo di ottima salute, farciva di foschi presagi gli istanti condivisi con la famiglia, evocando un’imminente dipartita. Quando l’influenza stagionale la contagiava come chiunque, lei sentenziava –“E’ un segno del Signore, sta per prendermi con sé.”­-Quando mia madre la invitava con sette giorni di preavviso al pranzo di Natale, lei dubitava ­-”Chi può dire se a Natale sarò ancora qui?”­ – Quando i nipoti le consegnavano giocondi il regalo di compleanno, sospirava –“Avreste dovuto conservare i soldi per i fiori del mio funerale.”-
Rachele paventava nel suo catastrofico immaginario, epidemie, guerre, carestie, incidenti, e per lenire ognuna di queste eventualità padroneggiava un prontuario di orazioni esorcizzanti. Ma quale preghiera avrebbe purificato l’anima dei nipoti apostati che passavano alla chiesa concorrente? Mossa dalla cristiana virtù della generosità, condivise i tormenti con la sua terzogenita che le stava misurando la pressione arteriosa nella casa di legno
-“Selva, perché odi i tuoi figli?”­-
-“Mamma! Cosa diavolo dici?”-­
-“Perché vuoi mandare all’inferno Fax e Melissa?”-
Lei, sfilandosi il fonendoscopio dalle orecchie ­-“Mamma ti prego non farlo, non causarmi un altro mal di stomaco.”-­
-“Va bene, allora dimmi almeno perché vuoi punirmi.”-­
-“Io non voglio punirti!”-­
-“Però hai sposato un Mac Allister e sei andata a vivere in quel castello, Dio solo sa come il mio cuore abbia potuto reggere.”-­
-“So solo che la famiglia del castello ha saputo accettarmi come voi non avete fatto con Abel.”-­
“Se tu fossi stata strappata dall’ Africa, abbandonata come spazzatura su quest’isola, ingannata e umiliata da quegli inglesi, se fossi stata lì quella notte, capiresti.”­-
“I Mac Allister non hanno niente a che vedere con la nave dall’Africa e con il vostro abbandono. Se avessi guadagnato un pound ogni volta che te l’ho ripetuto, le rate del dentista di John Mark sarebbero saldate.”­-
-“L’ultima mia consolazione era che tu e i tuoi figli stavate dalla parte del Dio giusto. Ora invece…”­-
-“Non è un gioco a squadre! I bambini non erano felici alla chiesa cattolica.”-
-“Felici! Andare in chiesa non significa divertirsi, mettere quei cappelli circensi, tagliare torte e bere tè come fanno loro. Io sono forse felice? Eppure vado alla Santa Maria.”-­
-“No, effettivamente fai il possibile per non esserlo. Fidati di me per una volta. I bambini si trovano molto bene con la nuova catechista. ”-­
-“Quella donna divide il letto con il prete! E’ gravida di un prete!”-
-“E’ quello che fanno le mogli con i loro mariti…”­-
-“Sua moglie? E’ una bestemmia! Dove si sente di un ministro della chiesa che fa quelle cose con le donne? Inglesi… Questo non me lo meritavo davvero Selva, morirò di crepacuore.”­-
Lei, osservando i valori sul misuratore di pressione ­-“Ci seppellirai tutti mamma…con rito cattolico, come piace a te.”­-
A Rachele non rimaneva che estrarre l’artiglieria pesante e arruolarsi come crociata per una cruenta guerra di religione.
La merenda mi aspettava calda di forno. Quando mi presentai nella sala giorno del castello, mia madre esclamò –“Cosa fai con un ombrello aperto dentro casa?”-­
Io, maneggiandolo –“Secondo te resiste se piovono sassi e cavallette?”­-
“Qualunque gioco ti abbia proposto Lavinia, no, non lo puoi fare!”­-
Estrassi un pieghevole dalla tasca dei pantaloni ­-“Non è un gioco! Come faccio quando cadranno rane, cavallette e sassi dal cielo?”-­
-“Perché dovrebbero piovere cavallette e rane? E quello cos’è?”-
-“E’ l’elenco delle piaghe d’Egitto, me lo ha dato la nonna Rachele. Dice che ci succederanno queste cose perché abbiamo tradito il papa.”­-
Mia madre scosse il capo­ -“Chiudi quell’ombrello e vieni a fare merenda. Dov’è tua sorella?”-­
-“E’ andata al campetto con John Mark.”-

­
-“Melissa è andata a giocare a calcio?”-
-“Decima piaga, morte del primogenito maschio, Melissa voleva stare con John Mark prima che morisse…”-­
Sì, Rachele Maneri era armata fino ai denti e nessuno come lei sapeva quanto fornito fosse quell’arsenale. Tutte le volte che io e Melissa le facevamo visita appesantiva le nostre tasche di immagini sacre, medagliette con il volto della vergine e orrende miniature di Città del Vaticano. Una Domenica pomeriggio mia madre mi chiese –“Hai finito tutti i compiti?”­-
-“Sì.”­-
-“Bene, allora scendi al villaggio a prendere le mandorle dalla nonna, voglio preparare la torta Dundee.”-­
-“Posso chiedere a Will e Lavinia di accompagnarmi?”-­
-“Se la nonna Laura non ha niente in contrario…”­-
La nonna del castello non ebbe niente in contrario. Quella giù al villaggio, aperto l’uscio di casa, trovandosi davanti tre anglicani in bicicletta, fu lieta di vederci come poteva esserlo un cristiano che osserva Maometto legare il suo cavallo sotto la porta della cattedrale di San Pietro. Quando mi presentavo con i miei cugini inglesi, mia nonna Rachele reagiva con disagio e imbarazzo, infatti farfugliò qualcosa come –“Ah, sei in compagnia!… Non vi aspettavo in tanti, è andato bene il viaggio?”-­
Io­ -“Ci vogliono 10 minuti per arrivare dal castello.”-
-“E come stanno questi tuoi amici?”-­
-“Sono Will e Lavinia, siamo cugini.”-

­
-“Infatti, li avevo riconosciuti!”-
Poi, ostinandosi a guardare solo me, come se loro non fossero presenti -­“Allora digli che possono entrare…se vogliono.”­-
Io, seccato dal suo atteggiamento –“Nonna, possono sentirti.”-­
Lei, scandendo le parole ­-“Certo, ma io non parlo la loro lingua.”­-
Intervenne Lavinia –“Signora nonna di Fax, parliamo anche l’italiano, siamo inglesi mica stupidi!”-
Mia nonna, irrigidita mugugnò –“Vi do le mandorle, entrate.”­-
Lungo il vestibolo che conduce alla sala da pranzo, Will scrutava l’esposizione di quadretti appesi ­-“Chi è quello?”-­
Lei –“Come chi è? E’ Giovanni Paolo Secondo, il nostro papa! Puoi dargli un bacio se vuoi, ho spolverato oggi le cornici.”­-
Will­ -“Non voglio dargli un bacio!”­-
Vidi mia nonna stringere i pugni . Io, supplicandolo sottovoce –“Will, dagli un bacio, per favore…”-­
Lui , sussurrando -“Perché devo baciare quel vecchio?”-­
Io –“ Perché mia nonna si offende se non lo fai.”-

­
Si intromise squillante Lavinia­-“ Lo bacio io…sulla bocca, come nei film.”-­
Stava sporgendosi alla volta delle settuagenarie labbra pontificie, quando Rachele esplose nervosamente –“Stai lontana da lui!”­-
Trasalimmo spaventati. Poi, moderando il tono –Sì, ecco…venite in cucina a mangiare qualche biscotto.”-­
Mentre noi attingevano i dolciumi dalla biscottiera, lei prese dalla mensola del camino un modellino sacro mai visto prima. Io­ -“E’ nuova quella?”­-
–“Sì! E’ una madonnina con dentro l’acqua santa. Me l’ha spedita la mia amica Cesira di Mogadiscio. Cesira soffre di artrite reumatoide da quando ha lasciato la Somalia, poi ha immerso i piedi nelle acque miracolose di Lourdes e sta molto meglio!”­-
Così dicendo svitò il capo alla madonnina che era il tappo del flacone, lo poggiò sulla tavola, si bagnò le dita della mano destra con il corpo decapitato, e inumidì le fronti di ciascuno di noi ruminanti augurando –“Che Dio vi benedica… nonostante tutto.”-
Avvitata la cervice al corpo di Maria domiciliata in Nazareth, la ripose.
–“Vado a prendere le mandorle nella dispensa.”-­
Rimasti soli, Lavinia raggiunse su una sedia la mensola del camino. Io ­-“Cosa fai?”-­
Lei, afferrando la madonnina –“Beviamola!”­-
-“Sei pazza? Mia nonna ti uccide!”­-
La risposta a quella minaccia fu una sorsata taumaturgica seguita da gargarismi…ma niente rutti. Ero rassegnato a fronteggiare le dieci piaghe d’ Egitto solo per aver assistito ad una simile blasfemia. Mia cugina scese dalla sedia e porse la vergine senza testa a Will –“Bevila.”­-
Io­ -“Will, non farlo!”-
Lui sghignazzò e tracannò miracoli. Poi allungò verso me la madonnina –“Anche tu.”­ –
-“No, non posso!”­-
-“Noi l’abbiamo fatto, tocca a te.”­ –
Lavinia­ -“Presto o tua nonna ci scopre!”-­
Sentivo la porta della dispensa chiudersi, il cuore palleggiare, i passi di mia nonna avvicinarsi e scoppiettare le braci degli inferi. Strappai la madonnina dalle mani di Will, chiusi gli occhi e trangugiai santità stantia dal retrogusto muffoso.
“Che maleducata! Non vi ho offerto niente da bere con i biscotti.”-­
Queste le premure di un’ignara Rachele Maneri tornata nella sala da pranzo, dove tutto e tutti stavano esattamente come li aveva lasciati. Era ufficiale, avrei bruciato all’inferno, ma mi consolavo all’idea di ardere con Will e Lavinia. Non ebbi la forza di sostenere gli sguardi dei santi ritratti dentro le cornici, speravo solo avessero l’accortezza di non piangere sangue; esattamente come io l’avevo avuta ogni volta che mi ero sorbito le loro agiografie.
Salutata la nonna, assicurai il sacchetto di mandorle al manubrio della bicicletta, e con i miei cugini pedalai lungo i viottoli italiani del villaggio. I residenti di quella zona ci guardavano sorpresi e contrariati nel vederci in giro dalle loro parti. Il maleficio era già stato scoperto? Naturalmente no, ci detestavano a prescindere.    Prima di salire la collina deviammo a nord di Gardar, verso Old Bells Valley, la campagna dove sorgono le rovine della vecchia pieve anglicana. Dei corvi appostati su precari cornicioni gracchiavano spettrali alla prateria silente, inquieti ambasciatori dell’ade cui eravamo destinati.
Io, suggestionato –“Perché siamo venuti qui?”­-
Lavinia ­-“Per non farci scoprire!”­-
Will –“Ma nessuno ci ha visti bere dalla madonnina.”-

­
Lavinia –“ Ma no, per non far scoprire che mangiamo le mandorle.”­-
Io –“Non possiamo! La mamma ha detto che servono per la torta.”-

­
Lavinia ­-“Poche, solo un pugnetto.”-

­
Ed eccoli lì, tre iconoclasti ingordi e disonesti, grufolare in aperta campagna un bottino di altrui proprietà.
Entro sera, sinistri movimenti enterici ci causarono attacchi di dissenteria all’unisono. Due scuole di pensiero argomentano le cause della reazione fisica: per la corrente divina la provvidenza si era palesata infliggendoci l’undicesima piaga del “PELLEGRINAGGIO AL VESPASIANO”. Secondo la corrente razionale, quelli che avevamo tracannato erano i liquami di scorie plantari travasati nella madonnina dal catino, dove Cesira di Mogadiscio aveva immerso i suoi callosi, artritici piedi. AMEN.

CONVERSIONI (parte2) tratto da “A life in a Fax” di Fax Mac Allister Copyright ©
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“Achille Fabbro, un nome italiano, ma il cognome no.” di Fax Mac Allister

Massawa è deserta, decrepita. La amo.
Misuro i respiri, temo che un sussulto possa sbriciolarla.
L’aria ferma è densa dei fantasmi di un passato fastoso, festoso e nefasto.
L’Hotel Torino mi osserva silente con il biasimo dell’adulto che conosce la vita.

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Alle 8 della sera il sole allenta la morsa rovente.
È la vigilia della mia partenza. Massawa è deserta, decrepita. La amo.
Misuro i respiri, temo che un sussulto possa sbriciolarla.
L’aria ferma è densa dei fantasmi di un passato fastoso, festoso e nefasto.
L’Hotel Torino mi osserva silente con il biasimo dell’adulto che conosce la vita.
La ragazza del baretto Isola Verde ci porta due birre Melotti al tavolino sbilenco esterno. Dal juke box riverbera gracchiante il ritornello italo disco “Buonasera, buonasera signorina, buonasera signorina ciao ciao…”
Achille sorseggia lentamente, poi riprende a raccontare in italiano
-“Mia madre era di Adi Ugri, mio padre era un soldato del duce.
Quando sono nato lui mi ha dato un nome italiano, ma il cognome no.
Poi è partito. È andato a Roma. Forse stava male e voleva curarsi.
Non è più tornato. non so come mai.
Ho un nome italiano, il cognome no. Allora me lo sono dato io un cognome italiano. Lavoro il ferro, sono bravo sai! Trasformo il ferro in cose bellissime. Quindi il mio cognome è Fabbro.
Se vuoi spedirmi una lettera puoi scrivere sulla busta “Per Achille Fabbro”. Appena arriva a Massawa me la portano, mi conoscono tutti!”-

-“Domani torno a casa Achille. Ti manderò delle cartoline dal Sudafrica.”-

-“E in Italia?Torni anche in Italia?”-

-“Forse, per pochi giorni, tra qualche mese.”-

Achille sussurra come evocando un segreto -“In Italia…”-

-“Tra un anno sarò nuovamente qui a Massawa.Ci rivediamo a Ottobre.C’è qualcosa che posso portarti dall’Italia?”-

Lui illuminandosi -“Una pipa!”-

-Vuoi fumare?”-

-“Non c’ è niente di male! Sì, una pipa. Quando ero piccolo spiavo i signori italiani che fumavano all’ombra. Mi nascondevo lì (indica il bivio che apre ai Portici Savoia). Quanto erano eleganti non lo immagini! Le giacche stirate e certi cappelli. Sembrava una sfilata dei principi di Piemonte. Uscivano a passeggiare a quest’ora e si sedevano lì ai tavoli dei bar. Forse anche mio padre fumava una pipa. Non lo so, io non lo conosco. Se ne sono andati tutti…”-

MASSAWA. OTTOBRE. 12 MESI DOPO.
Cammino al crepuscolo verso l’Hotel Torino lungo la banchina che congiunge l’isola di Taulud a quella di Massawa. Emano l’aroma del repellente anti zanzare . Tutto è identico, immobile nella sua torrida letargia. L’inerzia afosa mi avvolge e rallento il moto.
Anche il mare sembra essersi arreso e ribolle in un impercettibile sciabordio. Compiaciuto nel sentirmi una parte di quel tutto irreale avanzo con gli occhi socchiusi, quando un alito sussurra il mio nome
-“Fax!”-
Achille siede solitario su un muricciolo. dimostra 200 anni ma conserva lo stupore infantile nello sguardo. -“Fax, sei tornato!”-

Si alza, mi abbraccia e poggia le mani leggere e grinzose sul mio viso, quasi ad accertarsi non si tratti di una proiezione. Ride e applaude.
Siedo con lui sul muretto

-“Sì Achille, come promesso un anno fa.”-

-“Un anno? Non può essere!”-

-“È stato a Ottobre, ricordi?”-

-“Non dirmelo. Oggi è Ottobre? Oh, sono vecchio di un altro anno””-
Ride.

-“Ho un regalo per te.”-
Sfilo la piccola sacca dalle spalle da cui estraggo un cofanetto in sughero .Sul coperchio è dipinta una Torino risorgimentale.
Gliela porgo.
Achille esita -“Per me?”-
Solleva il coperchio, la scatola contiene una Bent Apple in radica e due differenti qualità di tabacco. Achille trema incredulo, si contorce le dita.
Intuisco che aveva rimosso la nostra conversazione e non si capacita del materializzarsi di un desiderio. -“Davvero è per me?”-

-“Sì, per Achille Fabbro…”-

Estrae la pipa, la ammira reggendola sul palmo delle mani come cullandola e confida -“Ho aspettato tutta la vita che l’Italia tornasse da me, e oggi l’Italia è tornata…”-

La mia vista si appanna, voglio trattenere le lacrime nel rispetto del bambino meticcio dal nome italiano (il cognome no) che forse il tempo di piangere raramente se lo è concesso.
Achille posa una mano sopra la mia -“Sei un bravo figlio.”-

Le lacrime mi vincono e Massawa si irradia di una luce liquida. Respingo il turbamento emotivo, gli propongo -“Potresti fumare nel bar sotto i Portici Savoia, quello è il luogo giusto.”-

Effimere sagome di fumo librano nell’aria dal porticato moresco eroso dalle crepe. I nugoli profumati vestono l’eco dei trattenimenti danzanti, dell’elegante struscio serale esibito con provinciale alterigia, delle note dei valzer.
Quei giochi di vapore solleticano la memoria degli archi, fatiscenti spettatori evocativi di un regno lontano e di un passato coloniale perduto.
Scruto silenzioso il panorama. Mentalmente associo la toponomastica originale alle strutture rovinose imparata su un quaderno illustrato appartenuto a mio nonno: Lungomare Umberto I, le banchine Regina Elena e Salvago Raggi, Via Roma, Piazza Principi di Piemonte…”-

Achille sbuffa un altro fumoso disegno, e mirando orgoglioso la pipa
-“Non sai quanto l’ho desiderata nel mio cervello. Sembro un signore italiano elegante?”-

Gli sorrido -“Sembri un signore eritreo onesto.”-

Ad Achille, ai Meticci d’Eritrea, ai loro cugini italiani lontani.
Fax Mac Allister
Tratto da -Quaderni massawini- “A life in a Fax” di Fax Mac Allister Copyright ©
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CONVERSIONI (quando una catechista cattolica svela il suo passato in Abissinia)

-“Addis Abeba significa nuovo fiore. Quanto amavo il sole, il profumo dell’aria. Nel pomeriggio la luce filtrava dalle persiane chiuse, mettevo un vinile sul grammofono e danzavo in sottoveste nella mia camera. Non ero una brava danzatrice, ma dopo aver raggiunto un posto in Africa tutto sembrava possibile e sognavo di esserlo. Non immaginavo che l’Impero sarebbe crollato. Ho smesso di danzare da allora…”

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