LASAGNE D’AFRICA

La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta coincidano con il mio passato.

I lapilli di ragù eruttano dalla bocca di un panciuto signore dalla vocalità stentorea e planano sulla sua canottiera che disegna una cartografia untuosa.
La rigogliosa peluria pettorale bruna che emerge dalla scollatura arresta il moto gravitazionale di alcuni detriti di manzo in salsa di pomodoro. Compiaciuto alterna la masticazione del bolo di lasagna all’intonazione del motivo “Si va con Mussolini per l’Africa Oriental, abbiam con gli abissini molti conti da saldar…” ritmando vigorose percussioni della mano sopra il ginocchio monolitico ugualmente villoso.
Esercito uno sforzo di alienazione acustica e visiva per neutralizzare quella presenza. Inutile. Le vibrazioni aggressive pervadono la sala da pranzo della Trattoria Mafalda, di cui siamo gli unici due avventori. Volgo lo sguardo alla finestra che si affaccia su una strada di Addis Abeba, oppressa dall’edilizia residenziale moderna. La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Le tende sdrucite, come cataratte esauste, offuscano la visuale polverosa su un mondo che non ha compreso. Le crepe nelle mattonelle ottagonali del pavimento insinuano la nobiltà dei gigli stilizzati . Non mi sorprenderei se la demolizione avvenisse in questo momento a opera di un costruttore indiano con noi accomodati ai tavoli, accartocciati nel rudere che sorregge alle pareti ritratti celebrativi dei Savoia e impettiti gerarchi fascisti. Sono alla ricerca delle tracce che hanno segnato la storia della mia famiglia e, drammaticamente, sconvolta la genealogia. Le stesse che sedimentano nel mio nome. A differenza dell’apparente dolcezza di Asmara, Addis Abeba si manifesta faticosa e dolente.
Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta nella trattoria coincidano con il mio passato avito.
Una giovane cameriera etiope, dopo aver estratto il necessario dalla credenza tarlata e sbilenca, percorre la stanza trasportando il vassoio con i piatti e le posate, per apparecchiare il posto che occupo da pochi minuti. Intercetto lo sguardo del raffinato sconosciuto distante pochi metri che tenta di stabilire con me una complicità, quindi sentenzia -“Aò, ste abissine c’hanno er culo che sò dù Ambe. Ce voi morì n’artra vorta sull’Amba Alagi!”-
Segue una risata densa di catarro.
Scorgo la durezza nella mimica facciale della ragazza che liscia le grinze della tovaglia. Spero non mi stia comparando umanamente a quell’uomo mentre rimpiango di aver scelto questo mausoleo della nostalgia littoria per il pranzo. Riconosco al centro del piatto lo sbiadito emblema imperiale dell’Africa Orientale Italiana la cui base riporta solenne “romanamente”. L’usura ha scrostato il muso di uno dei due linguacciuti leoni avvinti al fascio. Dall’altro tavolo irrompe ancora un -“Bella che ce metti dentr’ar sugo pe fallo così bono? Ce sta’n piccantino. C’ho o metti tu eh? Se vede che te piace er friccicore, mannaggia a te.” Ride crasso battendo le mani.
La voce, lo schianto delle membra prodotte da quel soggetto collidono contro i miei denti e i timpani.
Cambio idea rivolto alla cameriera -“Mi scusi, servite solo cucina italiana o si può avere l’injera?”-
Lei in un fluido italiano -“Abbiamo l’injera, certo!”-
-“Ottimo, vada per l’injera! Me la cavo senza le posate.”-
Mi sorride e ritira la forchetta e il coltello. Raggiunge l’ospite in canotta per sparecchiare i suoi resti. Lui -“C’ha i segreti questa. To’o farei vedè io’n gran segreto, ah ah ah.”- Si avvolge il pube con la mano sinistra, tende il braccio destro verso l’alto con le dita della mano unite e le domanda -“O sai fà sto saluto?”-
Lei, imperturbata, reggendo i piatti -“Ho le mani occupate.”-
-“Sempre occupate ce l’hai ste mani, ah ah ah! Tiente libera la bocca pe’cantà, sì va co Mussolini per l’Africa Oriental, c’abbiam co gli abbissini molti conti da saldar…”-
La cameriera si dilegua verso la cucina.
Lui, rivolto a me -“Se sò dimenticati tutto questi. Se nun era pe’i idaliani stavano ancora a magnà banane ne’e capanne de merda e n’groppa ai somari. Mi nonno, mi padre hanno costruito de tutto qui ner fascismo e mo sti abescià se fanno costruì e ferovie dai scinesi. Quei artri culi ggialli.”-
Accosta alla bocca la mano destra a cucchiara e urla verso la porta della cucina -“Aòò, mo’o disci l’ingrediente segreto o c’hai i segreti coi scinesi pure tu? Ah ah ah!”-
Un trepestio stanco e lento proviene da quell’uscio, ne emerge un’anziana donna in abiti amhara con la croce ansata tatuata nel centro della fronte e dei versi dalle sacre scritture incisi sul collo. Si regge a un bastone di legno adunco, nell’altra mano afferra un contenitore per le spezie sul quale è applicata un’etichetta indicatrice del contenuto compilata manualmente.
L’italiano ammutolisce, con un gesto fermo la donna pone rumorosamente sul suo tavolo il contenitore sul quale c’è scritto in stampatello IPRITE. Decisa, lo guarda negli occhi e scandisce
-“NUN CE SIAMO DIMENTICATI DE GNENTE.”-


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