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Ei fu Fax, precoci prove di coccodrillo

Soddisfatti dall’esito del concepimento di un primogenito nel 1979, i coniugi Mac Allister riattivano la filiera pelvica nel 1982 per assortire di una secondogenita il nucleo familiare. Delusi quando l’ecografo spoilera la presenza di un paio di testicoli fluttuanti nelle brodaglie amniotiche. I perforanti proclami bellici di Margaret Thatcher, a difesa delle Falkland, valicano l’ambulacro uterino sollecitando il feto a una posizione patriottica che si manifesta con distacco della placenta e parto prematuro. La nascita di Fax Mac Allister coincide con l’anniversario dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, della Lotta di Liberazione eritrea e del golpe libico di Gheddafi. Cresce in un contesto italo britannico a fosche tinte afro-coloniali. Sviluppa dimenticabili velleità artistiche dalle quali si annovera la considerazione del maestro di danza “È talmente fuori tempo quello che fai che diventi scenicamente interessante.” Diventa attivista culturale per la Dickens Fellowship. Sogna di condurre un morning show radiofonico ma inforca le cuffie nei call center. Cura ad Asmara degli studi etimologici sul proprio nome per scoprire che tigrina è la matrice, ma littoria la contaminazione. Seguono stagioni di smarrimento identitario ed espiazione di ataviche colpe che lo legano al popolo eritreo. Nel 2025 subisce una rapina a Durban. Lo zaino sottratto contiene l’unica copia della sua autobiografia. Diserta la scena sociale. Quattordici anni dopo, uno speaker di Kovsie FM trova il manoscritto fra le riviste in una lavanderia a Bloemfontein. Legge le pagine in diretta radio per rintracciarne l’autore. Hollywood, Bollywood e Nollywood si contendono i diritti. Fax viene trovato in una stanza dell’Hotel Torino a Massawa. L’autopsia sentenzia: decesso avvenuto cinque anni prima nel corso di attività onanistica ispirata da un cartonato a dimensioni reali di Vin Diesel.

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REJECT

“Eccoti! Allora, com’è andato il garden party? Ti sei confuso fra quei bevitori di tè come un qualunque suddito di Sua Maestà?”


“Come no! Erik Holland ha commentato quanto somigliassi a Mu’ammar Gheddafi, Lady Kleinwort, che non sente un fottuto tuono, ha frainteso e innescato il panico per attentato terroristico. Sono stato circondato dalle Guardie a Cavallo di George Town e interrogato per due ore nelle scuderie.”


“Mio Dio… Comunque stai benissimo in kilt!”


“Sì, a proposito, credo di avere una zecca attaccata allo scroto…”

Selva Maneri e Abel Mac Allister, 1975

“REJECT” tratto da “A life in a Fax” di Fax Mac Allister Copyright © All right reserved Tutti i diritti sono riservati. È vietata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, dei contenuti inseriti nel presente racconto, ivi inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, diffusione o distribuzione dei contenuti stessi mediante qualunque mezzo stampa, audio, video piattaforma tecnologica, rappresentazione scenico-teatrale, supporto o rete telematica, senza previo accordo con Fax Mac Allister macallister1812@gmail.com http://www.faxmacallister.com

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LASAGNE D’AFRICA

La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta coincidano con il mio passato.

I lapilli di ragù eruttano dalla bocca di un panciuto signore dalla vocalità stentorea e planano sulla sua canottiera che disegna una cartografia untuosa.
La rigogliosa peluria pettorale bruna che emerge dalla scollatura arresta il moto gravitazionale di alcuni detriti di manzo in salsa di pomodoro. Compiaciuto alterna la masticazione del bolo di lasagna all’intonazione del motivo “Si va con Mussolini per l’Africa Oriental, abbiam con gli abissini molti conti da saldar…” ritmando vigorose percussioni della mano sopra il ginocchio monolitico ugualmente villoso.
Esercito uno sforzo di alienazione acustica e visiva per neutralizzare quella presenza. Inutile. Le vibrazioni aggressive pervadono la sala da pranzo della Trattoria Mafalda, di cui siamo gli unici due avventori. Volgo lo sguardo alla finestra che si affaccia su una strada di Addis Abeba, oppressa dall’edilizia residenziale moderna. La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Le tende sdrucite, come cataratte esauste, offuscano la visuale polverosa su un mondo che non ha compreso. Le crepe nelle mattonelle ottagonali del pavimento insinuano la nobiltà dei gigli stilizzati . Non mi sorprenderei se la demolizione avvenisse in questo momento a opera di un costruttore indiano con noi accomodati ai tavoli, accartocciati nel rudere che sorregge alle pareti ritratti celebrativi dei Savoia e impettiti gerarchi fascisti. Sono alla ricerca delle tracce che hanno segnato la storia della mia famiglia e, drammaticamente, sconvolta la genealogia. Le stesse che sedimentano nel mio nome. A differenza dell’apparente dolcezza di Asmara, Addis Abeba si manifesta faticosa e dolente.
Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta nella trattoria coincidano con il mio passato avito.
Una giovane cameriera etiope, dopo aver estratto il necessario dalla credenza tarlata e sbilenca, percorre la stanza trasportando il vassoio con i piatti e le posate, per apparecchiare il posto che occupo da pochi minuti. Intercetto lo sguardo del raffinato sconosciuto distante pochi metri che tenta di stabilire con me una complicità, quindi sentenzia -“Aò, ste abissine c’hanno er culo che sò dù Ambe. Ce voi morì n’artra vorta sull’Amba Alagi!”-
Segue una risata densa di catarro.
Scorgo la durezza nella mimica facciale della ragazza che liscia le grinze della tovaglia. Spero non mi stia comparando umanamente a quell’uomo mentre rimpiango di aver scelto questo mausoleo della nostalgia littoria per il pranzo. Riconosco al centro del piatto lo sbiadito emblema imperiale dell’Africa Orientale Italiana la cui base riporta solenne “romanamente”. L’usura ha scrostato il muso di uno dei due linguacciuti leoni avvinti al fascio. Dall’altro tavolo irrompe ancora un -“Bella che ce metti dentr’ar sugo pe fallo così bono? Ce sta’n piccantino. C’ho o metti tu eh? Se vede che te piace er friccicore, mannaggia a te.” Ride crasso battendo le mani.
La voce, lo schianto delle membra prodotte da quel soggetto collidono contro i miei denti e i timpani.
Cambio idea rivolto alla cameriera -“Mi scusi, servite solo cucina italiana o si può avere l’injera?”-
Lei in un fluido italiano -“Abbiamo l’injera, certo!”-
-“Ottimo, vada per l’injera! Me la cavo senza le posate.”-
Mi sorride e ritira la forchetta e il coltello. Raggiunge l’ospite in canotta per sparecchiare i suoi resti. Lui -“C’ha i segreti questa. To’o farei vedè io’n gran segreto, ah ah ah.”- Si avvolge il pube con la mano sinistra, tende il braccio destro verso l’alto con le dita della mano unite e le domanda -“O sai fà sto saluto?”-
Lei, imperturbata, reggendo i piatti -“Ho le mani occupate.”-
-“Sempre occupate ce l’hai ste mani, ah ah ah! Tiente libera la bocca pe’cantà, sì va co Mussolini per l’Africa Oriental, c’abbiam co gli abbissini molti conti da saldar…”-
La cameriera si dilegua verso la cucina.
Lui, rivolto a me -“Se sò dimenticati tutto questi. Se nun era pe’i idaliani stavano ancora a magnà banane ne’e capanne de merda e n’groppa ai somari. Mi nonno, mi padre hanno costruito de tutto qui ner fascismo e mo sti abescià se fanno costruì e ferovie dai scinesi. Quei artri culi ggialli.”-
Accosta alla bocca la mano destra a cucchiara e urla verso la porta della cucina -“Aòò, mo’o disci l’ingrediente segreto o c’hai i segreti coi scinesi pure tu? Ah ah ah!”-
Un trepestio stanco e lento proviene da quell’uscio, ne emerge un’anziana donna in abiti amhara con la croce ansata tatuata nel centro della fronte e dei versi dalle sacre scritture incisi sul collo. Si regge a un bastone di legno adunco, nell’altra mano afferra un contenitore per le spezie sul quale è applicata un’etichetta indicatrice del contenuto compilata manualmente.
L’italiano ammutolisce, con un gesto fermo la donna pone rumorosamente sul suo tavolo il contenitore sul quale c’è scritto in stampatello IPRITE. Decisa, lo guarda negli occhi e scandisce
-“NUN CE SIAMO DIMENTICATI DE GNENTE.”-


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NORTE DE AFRICA 52001

MELILLA, Norte de Africa 52001

Las palmeras inertes bajo el sol del norte de África, las fachadas modernistas reflejan la luz contra los barrios magrebíes, las campanas de la iglesia responden al llamado del muecín, un grupo de fieles judíos pasean por la acera sombreada. Una frontera terrestre separa y une dos continentes. Los legionarios marchan bajo el fuerte mientras un soldado marroquí observa a Europa a través de una rejilla metálica, la televisión transmite una telenovela argentina de los años 80 cuando la radio de Nador emite un rapero contemporáneo. El huésped  de un hotel consume una mermelada de piña mientras un recolector de fruta maliense espera  su futuro en el Monte Gurugù … Me llamo Fax Mac Allister, estoy en Melilla, Norte de Africa 52001. Trata de no perderte.

www.faxmacallister.com Una vida en un Fax 

*La imagen está tomada de un fotograma del documental “LES SAUTERS” 2016 de Abou Bakar Sidibé, Moritz Siebert, Estphan Wagne

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Edinburgh 09/04/2021

Mon Repos/Buckingham,
thanks for your wonderful journey.

Mon Repos/Buckingham


Your life has been a tragedy and a comedy, although you didn’t get the role of the protagonist you were a precious character.

You have known deep feelings and mastered emotions.

Thanks for your wonderful journey.


Fax Mac Allister of Colinshire

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SCHEMI DI GIOCO

“Se vuoi essere un uomo, sgonfia a calci un pallone e gonfia di calci un finocchio.”

“Se vuoi essere un uomo, sgonfia a calci un pallone e gonfia di calci un finocchio.”

Colinshire 1990.
Abel Mac Allister era un uomo ottimista e onesto.
Virtù preziose, considerato che Abel è un venditore.
Attraversando in auto “Abissinia”, l’isolato italiano del villaggio di Gardar, Abel scorse un gruppo di bambini che giocava a calcio su un prato fangoso, dove due pertiche sbilenche fungevano da porta da gioco. Raggiunto il sobborgo britannico, Abel prestò attenzione dall’abitacolo a una comitiva di ragazzini biondi e fulvi che tiravano dei rigori in un modesto campo sportivo.
Britannici e italiani abitavano aree separate del Colinshire, demarcazioni immaginarie rese invalicabili da un’annosa, freddissima guerra di trincea. Lasagne contro fish and chips, cattolici contro anglicani, Quirinale contro Buckingham Palace.
Solo un motto sanciva l’armistizio accordando i fronti rivali su una posizione condivisa, “Se vuoi essere un uomo, sgonfia a calci un pallone e gonfia di calci un finocchio.”
Parcheggiata l’auto al ventiquattresimo di Cumberland Street, Abel assestò due colpi di batacchio alla porta di casa Darling. Cliff Darling aprì reggendo una bottiglia di vino rosso.
Abel incalzò -“Salute Darling! Qualcosa mi dice che è approdato il mercantile da Aberdeen…”-
-“Puoi dirlo Mac Allister! Entra…”-
Cliff percosse benevolo la spalla di Abel e diresse un richiamo verso la cucina -“Cinthiaaa…ci occorre la cristalleria fine, visite dalla collinaaa…”-
Cinthia Darling emerse da una nube vaporosa brandendo una spatola con la mano nuda e calzando un guanto da forno nell’altra -“Abel Mac Allister, non ricevo una visita di tua moglie da quando i bell bottoms andavano di moda. Diglielo! Siete snob come vocifera il volgo?”-
Abel, rivolto a Cliff -“Lei ti minaccia sempre con gli utensili da cucina?”-
Cliff -“Peggio, poi ti serve quello che ha preparato.”-
Cinthia scudisciò suo marito con la spatola -“Che idiota! Effettivamente quello stupido agnello sembra crudo e bruciato. Per fortuna abbiamo il vino! Bevi un bicchiere?”-
-“No, grazie ragazzi, Selva ci aspetta. Fax è qui da voi?”-
Cinthia annuì –“ È di sopra. Cliff accompagnalo e di’ a Evelyn che la cena è pronta.”-
Cliff Darling schiuse l’uscio della cameretta. Sua figlia saltellava in tutù con una corona di plastica in testa, Fax si dimenava sopra un baule rosso cantando “My old piano” di Dyana Ross, con un cilindro rivestito di stagnola sul capo e due stelle azzurre nelle gote.
Sì, l’ottimismo era una delle spiccate virtù di Abel Mac Allister. Dei due bambini, non era suo figlio a indossare corona e tutù.
Cliff spense il giradischi -“Ma disastro c’è? Cosa fate?”-
Evelyn impermalita  -“Dovevi bussare. Sono le prove del nostro show, tornate dopo.”-
I due uomini si scambiarono uno sguardo.
Abel imbarazzato -“Fax, levati il cappello, dobbiamo andare”-
-“Evelyn mi ha detto che posso tenerlo.”-
Lui -“No, no! Lascialo qua. Le stelle come si cancellano?”-
Evelyn, saccente -“Sono tatuaggi!”-
Abel -“Tatuaggi?”-
Lei -“Sì, vanno via con acqua e sapone, domani ci facciamo uno spartito musicale sulla fronte.”-
Abel, imitando l’entusiasmo della bambina-“ Ma che bello! “- Poi adombrato -“Dai andiamo Fax, è ora di cena”-
In auto, lungo il declivio verso il castello, Abel lanciava dubbiose occhiate al figlio con le gote stellate. Quella notte prima di addormentarsi nel loro letto disse a sua moglie
-“Dobbiamo fare qualcosa per Fax.”-
Lei, ungendosi le mani con una lozione canforata -“Che genere di cosa?”-
-“Qualcosa perché non vada in giro con la faccia dipinta.”-
-“Sono più tranquilla quando gioca con Evelyn che con sua sorella. Melissa le stelle gliele avrebbe marchiate con un ferro rovente.”-
-“Dico davvero Selva, Fax non sta bene! Quel bambino ha qualcosa che non va, ci mette in imbarazzo con l’intero villaggio.”-
-“Sai chi non sta bene? Io! E sai chi mi mette in imbarazzo? L’intero villaggio!”-
-“Cosa ti succede?”-
-“Quello che succede da sempre! Stamattina facevo la fila all’emporio per pagare la spesa, ma Mr. Buttle serviva qualunque britannico arrivato dopo di me. Poi fingeva di non capire il mio inglese mentre alle mie spalle sentivo sghignazzare “spaghetti”. Arrivata al castello mi sono accorta che metà delle patate scelte da sua figlia erano marce!”-
-“Magari era a corto di forniture, il mercantile è arrivato con dodici giorni di ritardo.”
-“Allora dovrò tornare domani, si dice che Nelly Buttle sappia tastare bene la merce giù al porto. Difendi quella sgualdrina?”-
-“Ma no!”-
-“Abel, cosa siamo? Troppo “spaghetti” per gli inglesi e i traditori nel castello british per gli italiani! Sono stanca di essere processata!”-
-“Abbiamo i nostri amici, Cintia reclama una tua visita, loro non ci giudicano.”-
-“Tutti ci giudicano!”-
-“A maggior ragione dobbiamo evitare che Fax si comporti in modo strano. Così proprio non va. Mi verrà in mente qualcosa, lascia fare a me…”-
-“L’ultima volta che ti ho lasciato fare con quel bambino era un neonato e lo hai registrato all’anagrafe con il nome di un dispositivo elettronico.”-
-“Non essere amara, sai bene cosa significa quel nome.”-
-“Sì, lo sappiamo tu, io e quattro ascari trucidati sull’Amba Alagi nel 1941.”-
-“Va bene, sei stanca, è la tua frustrazione a parlare.”-
-“Se liberassi la mia frustrazione non parlerei, darei fuoco a questa dannata contea, castello compreso!”-
Selva sprofondò sotto le coperte volgendogli le spalle.
Forte del suo ottimismo, Abel spense il paralume a frange sul comodino confidando in un’illuminazione. Cupe visioni popolarono i suoi sogni. L’eco dell’infanzia scaturiva ombre remote impigliate nelle trame dolenti della memoria, la prematura morte di sua madre, l’abbandono di suo padre cinto dalle nebbie destinato all’Asmara. La prima notte in quel castello gelido sulla collina di Gardar, gli estranei inglesi che, gli dicono, saranno la sua nuova famiglia, lui che si abbandona in lacrime sul baldacchino della camera senza sfilarsi le scarpe, Laura Mac Allister che gli parla dolcemente in una lingua incompresa di Fred, il figlio perduto. Sopravvissuto al dolore, ancora bambino, Abel si convince “il peggio era quello, il peggio è trascorso”.
Dovete sapere che Abel Mac Allister vendeva su provvigione gli spazi pubblicitari per The Harp, una stazione radiofonica della Contea. Gli inserzionisti che pagavano per venti secondi di spot sulle frequenze locali non erano facoltose holdings: il macellaio rifornito dalla battuta di caccia al fagiano, la segheria che ambiva a rivalutare la sua immagine dopo l’increscioso fuori programma delle dita mozzate di Donald Greene, il libraio che alludeva alla disponibilità dei pornazzi all’ombra dei classici esposti, la mescita a cui non occorreva sollecitare l’afflusso di avventori, l’agenzia di pompe funebri che sovente strappava qualche assiduo avventore alla mescita.
Ma ecco che un giorno la “North Kick” sottoscrisse l’accordo per una pubblicità sulle frequenze radio.
Abel Mac Allister emanava il fulgore dell’ottimismo. Come non averci pensato prima?
LA NORTH KICK! Una società atletica dilettantistica che allena i calciatori in età scolare. Grazie a quella provvidenziale contrattazione brillava la salvezza di suo figlio Fax.
Quella sera, sventolando un modulo d’iscrizione alla scuola calcio, mio padre tornò euforico nell’appartamento del castello dove alloggiavamo. Durante la cena annunciava orgoglioso che sarei diventato un allievo della North Kick, puntuale per il mio compleanno.
Mio fratello John Mark -“Che storia!”-
Mia sorella -“Dov’è il mio regalo?”-
Mio padre -“Mancano cinque mesi al tuo compleanno, Melissa.”-
Io -“ C’è un guscio di noce nell’insalata.”-
Mia madre -“Hai sentito Fax? Ti regaliamo l’iscrizione al corso di calcio!”-
-“Ma io non gioco a calcio.”-
Lei -“Non si può rifiutare un regalo.”-
-“E voi fatemene uno diverso, uno che mi piace.”-
Dopo cena mi venne mostrato un pieghevole della North Kick.
Lasciai che John Mark se ne impossessasse.
Ero in pericolo, mio padre era equipaggiato e deciso.
Il pomeriggio seguente attesi che l’orologio olandese a pendolo scandisse le 17.00. Davanti a me la scalinata che congiungeva il nostro appartamento a quello dei miei nonni Mac Allister, custodi del castello di Gardar. Dalle travi del soffitto pendevano i vessilli dei Territori del Commonwealth. Complice lo sconforto, li associai a delle lame più che a dei tessuti celebrativi. Mi fiondai al piano superiore per un colloquio con la nonna Laura. Fortunatamente non era occupata con una delle ladies in chiffon e maniche a sbuffo che riceveva per il tè.
Consapevole di sconfinamento non autorizzato la raggiunsi nel suo studio. Scriveva a macchina. Quando la tastiera dell’Imperial 50 orchestrava metallica, dovevo osservare distanza e cautela marziali. La macchina per scrivere era una reliquia donatale dal Mayor di Salinsbury nel 1982, dopo aver redatto l’ultimo dispaccio prima che la città venisse ribattezzata Harare.
La nonna scorse la mia sagoma dallo scrittoio ma proseguì a lavorare senza considerarmi. I bagliori del fuoco acceso animavano le ali rapaci dei draghi sugli alari in ottone. Sedendole frontale sul divano vicino al camino, sospirai reggendo la testa con le mani.
Il ticchettio proseguiva. Sospirai di nuovo. Il ticchettio si arrestò per un secondo e riprese. Sospirai più energicamente.
Mia nonna eresse il capo – “ Fax! Prevedi di sopravvivere per due minuti, o il peso del mondo ti schiaccerà se non mi precipito lì?” –
Generosamente, le concessi di rimandare le sorti del mio insidiato destino a fine battitura.
Quindi mi raggiunse sul sofà -“ Sentiamo…”-
-“Papà vuole farmi giocare a calcio”-
-“Questo è il dramma?”-
-“Io non ci voglio andare.”-
-“Perché no?”-
-“Perché non mi piace”-
-“Glielo hai detto?”-
-“Sì.”-
-“Forse papà vuole che tu faccia dello sport. È giusto”-
-“Ma faccio già educazione fisica a scuola!”
-“Con una maestra disabile, infatti. So che vi fa giocare a nascondino. Certo non ti candiderai alle olimpiadi…”-
-“Io non voglio fare calcio”-
-“Tuo fratello ama il calcio, tua sorella danza, tua cugina cavalca, i tuoi cugini giocano a stoolball. Ci sarà uno sport che ti piace.”-
-“Voglio pattinare.”-
-“Oh bene! Allora pattinerai. Devi solo dirlo ai tuoi genitori.”-
-“E non puoi farlo tu?”-
-“Sì, potrei, ma non sarebbe corretto. Devi farlo senza un portavoce.”-
Sospirai ancora e lei -“ Oh ma per favore Fax, questo non è un problema! Ti trovi a scegliere se giocare a calcio o pattinare, siedi sopra un divano comodo e tua madre prepara torte per la merenda. Tutto questo mentre un bambino a Kolkata sceglie se prostituirsi o digiunare…se non lo hanno già scuoiato per vendere i suoi organi. Quindi tira su quel muso e stasera parla con i tuoi genitori”-
A tavola, esordii durante la cena -“Io non voglio giocare a calcio.”-
Mio padre -“Che storia è questa? Devi fare dello sport.”-
-“Voglio pattinare.”-
Mio fratello -“Che schifo, è una roba da femmine. “-
Mia sorella -“Non è vero, anche Nick il mio maestro di danza pattina.”-
Mio fratello -“Infatti è una femminuccia.”-
Mia sorella  -“Brutto scemo, lui ha i muscoli.”-
Mia madre -“Voi due smettetela subito.”-
Mio padre -“Cosa vuol dire che vuoi pattinare ? Non si può praticare qui.”-
Mia sorella -“Non è vero, Nick pattina dentro la palestra di George Town.”-
Mio padre -“Grazie Melissa, non ho chiesto il tuo contributo. Il calcio è più adatto a un bambino.”-
-“Ma non mi piace.”-
Mio padre, urtando le posate sul piatto “Oh dannazione Fax! Perché non ti fai piacere una mia proposta? Farai calcio, nessuna alternativa.”-
Cominciai a piovere lacrime sul roastbeef.
Mia madre, più morbida – “Fai almeno un tentativo.”-
Io -“No!”-
Mio fratello -“ Questo è proprio scemo.”-
Mio padre, infastidito -“Non puoi continuare a disegnarti le stelline in faccia.”-
Mia sorella -“Anche Delia Berry sa andare sui pattini.”-
Mio fratello, spazientito -“Ma è una femmina!”-
Mia madre -“Sospendiamo qui. Fax, vai a sciacquarti il viso.”-
Quando uscii dalla stanza, lei ritorse -“Credevo dovessimo fargli un regalo…”-
Mio padre -“Lo sto facendo, cerco di salvarlo da un tutù e una coroncina, mi ringrazierà un giorno.”-
-“Bene, poi mi dirai com’è quando piangerà durante le partite. Perché ci sarai tu a bordo campo con gli altri padri che ti chiederanno, quello è tuo figlio?”-
-“Di’ un po’, vuoi che pianga anch’io sul roastbeef?”-
Mio padre era contrariato e offeso dal mio modo di essere.
Resistere al calcio insinuava negli abitanti del villaggio un diffidente presentimento, suo figlio evitava qualcosa di proverbialmente maschile.
Non ero l’unico a cercare conforto al piano superiore del castello, la sera successiva mio padre consultò mia nonna.
Lei, dopo averlo ascoltato nel suo studio sul sofà accanto al camino -“Abel, mi sto sforzando credimi, ma non capisco. Fax vuole pattinare. Allora?”-
-“Gli ho proposto il calcio e ha pianto. Capisci? Ha pianto! Non per la gioia, lui ha pianto perché NON gli piace il calcio!”-
-“Quindi il problema è trovare uno sport che gli piaccia. Ve lo ha suggerito, vuole pattinare.”-
-“No! Il problema è fargli fare quello che fanno i maschi della sua età. Tutti i bambini prendono a calci un pallone. Perché mio figlio vuole pattinare?”-
-“Non vuole sparare al poligono, vuole pattinare! Cosa c’è di così nobile nel calciare una palla?”-
-“Non deve essere nobile, deve essere normale!”-
-“Fax è un bambino educato e dolce. Sei sempre stato un ottimista, perché ora questo dramma?”-
Abel afflitto bofonchiò “dolce” come fosse un insulto.
Laura sempre meno paziente -“Oh ma per favore Abel, mi costringi a parlarti come faccio con Fax! Mio figlio si tuffava nell’Oceano, improvvisava evoluzioni sui cavalli sottratti alla scuderia dei Lenville e non dimenticare che sbriciolò gli incisivi di Bella Dunkan alla vigilia delle sue nozze. Poi abbiamo adottato te, un cattolico! Tuttavia non sono la più sfortunata. Ci sono figli che si iniettano l’eroina negli occhi, il tuo ha chiesto solo dei pattini!”-
Mio nonno Gilbert entrò nella stanza -“Qualcosa non va?”-
Laura, caustica -“Una vera tragedia! Fax vuole pattinare…”-
Gilbert, estatico -“Oh, i pattini! Il console olandese una volta mi raccontò che i pattini salvarono la flotta nazionale nella Guerra degli Ottant’anni.”-
Si chinò davanti al camino e proseguì attizzando il fuoco -“Gli spagnoli avevano circondato le loro navi sul Mare del Nord. Gli olandesi avevano a bordo i pattini con le lame, sono scesi sull’acqua ghiacciata e si sono dileguati verso il porto di Amsterdam. Quegli spagnoli idioti li guardavano scivolare liberi verso casa.”-
Laura, rivolta ad Abel -“È un aneddoto sufficientemente virile per i tuoi canoni atletici?”-
Il giorno del mio ottavo compleanno sceglievo con i miei genitori un paio di pattini a rotelle da Tackleton, il giocattolaio di George Town. Distante da Gardar e dagli sguardi dei nostri compaesani, distanti dall’emporio di Mr. Buttle (che pure i pattini li vendeva) dove Nelly Buttle omaggiava i clienti della generosa scollatura già popolare fra i camalli sbarcati da Aberdeen. Sfortunatamente per mio padre, Mr.Tackleton aveva acquistato un passaggio pubblicitario sulle frequenze della Harp. Abel sperava di non essere riconosciuto dal proprietario mentre suo figlio barattava la virilità per dei pattini.
Il garzone, un giovane dalla zazzera arruffata e il viso bitorzoluto, me ne mostrò un paio blu.
Li calzai emozionato alla sensazione delle ruote sotto i piedi, ma un articolo di colore fluorescente rapì la mia attenzione
-“Mi piacciono quelli”-  dissi indicando i roller sgargianti su uno scaffale.
Mia madre, tesa -“Quelli arancioni?”-
-“Sì!”-
Mio padre deglutì faticosamente.
Il commesso, incredulo -“Ci sono altri colori più…da maschio.”-
Io -“Arancioni sono proprio belli!”-
Mia madre annuì sconsolata, il ragazzo me li porse.
Abel fece qualche passo indietro, cadde seduto su una rudimentale panca di legno davanti a un espositore di scarpette da calcio.
Un bambino ne misurava un paio.
Mio padre, affranto -“Sembrano comode.”-
Il bambino assentì.
Mio padre, sottovoce -“ Se fingi di essere mio figlio finché quel bambino con i pattini esce dal negozio, ti do cinque pounds.”-
Il bambino lo guardò diffidente.
Mio padre -“E va bene, ti compro un pallone, ma fingi di essere mio figlio davanti al proprietario.”-
Mia madre lo richiamò -“Abel, abbiamo fatto.”-
Lui, al bambino -“Se un giorno la tua famiglia ti vende ai trampolieri gallesi ambulanti, non contare su di me…”- E ci raggiunse risentito.
Usciti dalla bottega di Tackleton ero il più felice degli omini su tutte le superfici ciclabili e pattinabili emerse. Quei pattini erano i più belli che avessi mai visto.
Quando li esibii al castello mio nonno Gilbert esclamò -“Che colore da…”-
Proruppe mia nonna Laura -“Olandese! Che colore da olandese, vero Gilbert? Rammenta la Guerra degli Ottant’anni…”-
Dormivo con i pattini ai piedi del letto per non separarmene nella notte. Pretendevo di pulire le rotelle con un panno dopo ogni avventuroso periplo nella mia camera. Mia madre corresse le maniacali abitudini obbligandomi a riporli nella scarpiera comune con le altre calzature e vietandone l’utilizzo nell’appartamento.
Ma dove pattinare? Le strade di Gardar erano limacciose e irregolari. Dominato da un impeto di coraggio in un pomeriggio ventoso li collaudai sul piazzale della Saint Thomas, la chiesa anglicana. Impeto sgradito ai calciatori del campetto circostante che, allertati da Toby Clark, mi raggiunsero per bersagliarmi a pallonate.
Il piano terra del castello ospita la sala dei ricevimenti, fasti di un passato in cui l’aldermanno della Contea fregiava di cariche pompose i forestieri dai Territori d’oltemare. Quella sala era proibita a noi bambini, come tutte le zone del castello a eccezione per l’ala residenziale di servizio. Dalle vetrate esterne mi ero accertato di quanto fosse ampia.
Il portone per accedervi era chiuso. Conoscevo l’ingresso interno, ugualmente serrato. La soluzione stava nel provare una per volta le chiavi delle stanze proibite. Pendevano su una toppa alla parete piantonata da un’armatura ostile. Preda di una sventurata idea montai con le scarpe su una sedia imbottita e…
-“Fax Jeremy Mac Allister!”-
Non so spiegare per effetto di quale abilità metafisica o umana superiore, eppure mia nonna Laura mi aveva già scoperto. Fottuto delatore di un Toby Clarck, eri sempre ovunque? Conservo di quell’istante la memoria sensoriale del congelamento di ogni globulo che fluisce nelle vene. Mia nonna, pur sprovvista di un pallone da calcio con cui lapidarmi, incalzò -“Raccontami le tue intenzioni.”-
-“Stavo cercando delle chiavi.”-
-“Si, questo lo vedo, come vedo i tuoi calzari ingrati su un sedile che risale a Giorgio IV. Sono ansiosa di ascoltare il seguito…”-
-“Non so dove pattinare, volevo vedere se il salone ha un pavimento liscio…”-
-“Che io sia bandita da tutti i Territori di Commonwealth se non ti spezzo le dita! Riponi subito quelle chiavi alla toppa.”-
Ubbidii -“Nonna ma io voglio pattinare.”-
-“Fax! Come devo farti capire che questo castello e tutto quello che contiene appartengono alla Corona e che io e tuo nonno siamo responsabili della sua custodia? Non ti difenderò quando confesserai a Sua Maestà e al Duca di Edimburgo di avere minacciato il loro pavimento.”-
-“Ma loro non sono mai venuti qua e neanche ci telefonano.”-
Lei, offesa -“Questo lo dici tu! Proprio ieri sera mi hanno chiesto se avessimo fatto lucidare il laminato. Saranno molto delusi quando gli racconterò quello che meditavi.”-
Mia nonna giocava con me la carta dei sovrani adirati anche per risolvere questioni estranee alla custodia del castello. L’idea d’indispettire la Regina del Regno Unito mi turbava sempre molto. Mi figuravo con i rollerblade davanti al trono di Elisabetta e Filippo mentre si consultavano circa la truce fine cui destinarmi.
TAGLIATEGLI LA TESTA!
Che i principi Harry e William non avessero mai rigato un pavimento, rotto un vetro a Buckingham o durante le vacanze a Balmoral?
Scesi dalla sedia e salutai la nonna.
Lei -“Ma dove pensi di andare?”-
-“A giocare!”-
-“Dopo aver commesso vilipendio? No davvero! Seguimi.”-
Da uno scaffale della biblioteca nel castello estrasse un volume massiccio con la copertina spessa, rilegata severamente alle pagine itteriche e corrose. Meritai un panegirico di qualche ora sulle gesta di Guglielmo I il Conquistatore poi, credo, persi i sensi per agonia, perché i ricordi seguono alla settimana successiva.
Mio nonno Gilbert, livellando la superficie con strati di linoleum, aveva adibito una delle serre dismesse nel giardino a pista di pattinaggio coperta. Meno ampia del salone ricevimenti, ma mi era stato garantito che Elisabetta e Filippo approvavano.
Pattinai benedicendo la Corona per tutto l’Inverno, riparato dagli elementi, dalle soffiate di Toby Clarck, dalle pallonate ostili.
Ogni sera, di ritorno dal lavoro, Abel Mac Allister percorreva Abissinia, l’isolato periferico di Gardar dove i bambini italiani disputavano i tornei di calcio sul prato fangoso. Svoltava per il sobborgo britannico, dove ragazzi normanni non meno competitivi, si contendevano il pallone nel modesto campetto.
Arrivato nel suo appartamento al castello, Abel tollerava con malcelato disappunto il paio di pattini arancioni riposti nella scarpiera. Quei pattini gli ricordavano quando l’ottimismo lo aveva illuso di trasformare suo figlio Fax in un calciatore. Quel colore penetrante aveva spento la sua brillante positività.
Abel Mac Allister era un uomo onesto e un fidato venditore, ma l’ottimismo di un tempo era andato offuscandosi.
Abel, che non voleva rinunciare alla sua virtù dominante, si fece un regalo. Una scarpiera personale in misto cascame. Gli abitanti di Gardar sapevano che le dita amputate di Donald Greene erano cadute negli scarti della segheria e che albergavano dentro qualche manufatto in truciolato venduto nel villaggio. Evelyn Darling sosteneva di sentire nella notte uno schiocco delle dita provenire dal suo sgabello da toeletta tinto di rosa. Dentro alla nuova scarpiera di Abel nessuno poteva riporre alcuna calzatura contro la sua autorizzazione, niente di fluorescente e di arancione. Le scarpe da calcio di John Mark godevano di cittadinanza onoraria nel tabernacolo della rettitudine plantare. Un pomeriggio, nella foga per raggiungere il televisore e ascoltare la sigla di “Penny Crayon” (che amavo più del cartone stesso) commisi un errore.
I pattini nella scarpiera proibita.
Quella sera mio padre entrò nella dining room reggendo i miei pattini per le stringhe fluo e un pallone da calcio sotto braccio. Ammutolimmo tutti alla vista del suo sorriso soddisfatto.
Mia madre, sospettosa con la salsiera fra le mani -“Abel, cosa…”-
Lui -“Lascia fare a me Selva…”- Poi, verso di me -“Fax, mai sentito parlare di ROLLER SOCCER?” …


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In evidenza

SO BRAVE, SO BRITISH!

Come il Royal Wedding ha stravolto la quiete di un campus universitario

Mi chiamo Fax Mac Allister e questa mattina, prima di terminare la colazione, sono diventato un uomo.
Tranquilli, non reclamizzo una linea di corn flakes dalle proprietà virilizzanti, a questo provvedono i pop up spalancati sul vostro schermo che garantiscono di limonare duro con Gisele Bündchen alla seconda nebulizzata di un’essenza eau de parfum.
E’ stata la prima pagina del “The Weekly” a informarmi del cambiamento, nonostante il mio nome non venisse citato esplicitamente sulla testata. Chi sfoglia i quotidiani di Johannesburg sa quanto forte debba essere il proprio stomaco e sceglie se affrontarli prima o dopo i pasti.
I media sudafricani percorrono la morbosa linea editoriale splatter, che si rinnova a ogni numero con la pubblicazione delle stragi di farmer bianchi trucidati da bande criminali dentro le proprie tenute.
Meningi boere schizzate sulla testiera del letto a colpi di mazzuolo, o mattanza di borghesi crivellati oltre le fallibili recinzioni elettrificate della luccicante Sandton.
Non posso affermare di essere immune alla rassegna di macelleria quotidiana, ma la frequentazione coatta della chiesa cattolica durante la prima infanzia mi aveva abituato all’iconografia truce dei santi infilzati, fustigati, accecati e impalati.
Ebbene, 7,30 del mattino, colazione a casa davanti all’immancabile fotografia di un agricoltore impiccato al suo scaldabagno con il cranio sfondato.
Un dettaglio nella didascalia catalizza la mia attenzione: la vittima viene identificata dal cronista come “un uomo di 30 anni.”
Un uomo di 30 anni? UN UOMO!
Prima di terminare la spremuta d’arancia e le frattaglie di una frittata cruda all’interno e bruciata in superficie, mi lancio a recuperare dal cestino del riciclo i numeri precedenti del The Weekly.
Sfoglio concitato. Lapidario, l’allevatore strangolato con il filo spinato a Randfontein è UN UOMO DI 30 ANNI, come è UN UOMO DI 30 ANNI l’addetto alla sicurezza di una villa a Rivonia decapitato durante una rapina notturna, UN UOMO DI 32 anni è il suo assalitore. UN UOMO DI 30 ANNI è  Roy Bloom, ex cantante dei Joburg Boys che, dopo un provvidenziale trapianto di capelli ha ritrovato la stima e la rottamazione in un reality sulla DS tv…ma questa è un’altra storia.
Lo so, sorge in voi una domanda “cosa diavolo sta succedendo ai trentenni e alle boyband?” Ma nella mia testa, accasciato sul contenitore dei rifiuti cartacei riverbera una sola sentenza:
“UN UOMO DI 30 ANNI”.
Non ho forse IO compiuto 30 anni? Che ne è della mia sempiterna giovinezza?
SONO UFFICIALMENTE UN UOMO!
Come è potuto accadere? Quando avevo 12 anni pensavo ai ventenni come patetici vecchi, a 18 mi figuravo i trentenni come ruderi abbracciati a una cassa di legno in attesa del crepuscolo. Poi, non so quando e perché, ho smesso di pensarci. Oggi un quotidiano locale, incline alla narrazione cruenta, mi schiaffa sul muso tutta l’efferatezza di una formula sintetica confinata nel grassetto di una didascalia:
30 anni = UN UOMO.
Torno al tavolo della colazione ed eccolo lì, sparso nel piatto, il compendio di una vita vacua, la carcassa di una frittata che non ho mai imparato a cucinare. Levo lo sguardo alla parete dove giace il mio diploma di attore professionista rilasciato dalla Westfontein Drama Academy, abbasso lo sguardo, agricoltore impiccato allo scaldabagno, un uomo, 30 anni, E DECIDO. Ancora non posso sapere se questi 30 anni sanciranno la mia effettiva evoluzione in uomo adulto, ma prometto di assumermi le responsabilità delle azioni compiute durante gli ultimi tre decenni, soprattutto di quelle meno lusinghiere. Per avviare questo processo di maturazione comincerò, non a caso, con una confessione relativa alla mia condotta di allievo attore.
Siamo nel 2005, Free State sudafricano, frequento l’ultimo anno del quadriennio in arte drammatica e passo come un integerrimo assertore del regolamento disciplinare che coordina la vita nel Westfontein Campus. Analizzando i registri di classe del Drama Department si noterebbe quanto esiguo sia stato il mio numero di assenze dalle lezioni, severamente sanzionate dal codice Accademico, pena l’espulsione definitiva dai corsi.
Ne maturai meno di 15 nel quadriennio, tutte per certificati motivi di salute. Talvolta ho ignorato qualche linea di febbre, ho tamponato sinistri movimenti enterici assumendo compresse di Shitfix per garantire la mia presenza e non perdere preziose ore di lavoro, il che mi valse una speciale onorificenza al conseguimento della laurea. Ebbene, IO HO MENTITO, quegli allori non sono del tutto meritati. C’ è stata un’occasione in cui ho mascherato di bugiarde spoglie piretiche un giorno di assenza dall’ Accademia per non perdere l’Evento che attendevo da una vita,
IL MATRIMONIO DI CAMILLA PARKER BOWLES CON IL PRINCIPE CARLO DI WINDSOR.
10 Febbraio 2005, il dispaccio di Buckingham Palace sentenzia semplice e conciso
“È con grande piacere che viene annunciato il matrimonio di Sua Altezza Reale il Principe di Galles e Mrs. Camilla Parker Bowles.” Seguono poi le sintetiche dichiarazioni di Sua Maestà Elisabetta: “Il Duca di Edimburgo e Io siamo molto felici che il Principe di Galles e Mrs. Parker Bowles si sposino.”
Quella sera, sul balcone del dormitorio affacciato sull’aiuola che disegna lo stemma secolare dell’Ateneo, prima di andare a letto impugno una tazza di tisana Morpheus e medito sulla faccenda. L’aria australe è carica di energia estiva, il campus aulente di jacarande è (quasi) silente, non fosse per Enok, il nigeriano del piano di sopra iscritto alla facoltà sportiva che si tromba la migliore amica della sua fidanzata. Cheerleaders…quanti danni. Tempo di tracannare l’infuso che millanta proprietà soporifere prendo due decisioni: la prima, domani compro un paio di tappi auricolari per attutire l’inquinamento acustico dello stantuffo nigeriano, la seconda, sarò testimone in diretta di QUEL MATRIMONIO, consapevole di  macchiare la mia condotta  accademica con un’assenza illecita. Camilla e Carlo avevano consumato la loro storia d’amore in regime di clandestinità per oltre 30 anni, causando crisi istituzionali, coniugali, dinastiche e clericali. Pensai che una giornata di  trasgressione dal regolamento Accademico sarebbe stata decisamente più innocua. Non potevo spiegarlo allora, ma la mia necessità di assistere alla cerimonia non era mossa da morbosità di giornaletto scandalistico per shampiste, tuttavia ero certo che nessuno mi avrebbe capito e sostenuto.
Quando vidi per la prima volta Camilla Parker Bowles in un filmato del telegiornale ero un bambino, abitavo nel Colinshire. Camminava cupa senza curarsi apparentemente della ressa intorno. Mi colpì molto quella donna con un copricapo simile a un fagiano incastonato fra i capelli, letteralmente assaltata dai fotografi e dalla folla, investita dai flash e dagli insulti. Domandai chi fosse, temo alle persone sbagliate. La risposta unanime :“è un sgualdrina ed è un cesso”. Ero abituato a convivere con le definizioni sommarie nella nostra piccola comunità. Io, per esempio, da quelle parti ero il bambino con un “nome di merda” che pattinava e non giocava a calcio. Possibile che la vita di una donna adulta sia concentrabile in “è una sgualdrina bruttissima”? Insomma, un poco mi seccherebbe se la mia biografia letta dai posteri venisse sintetizzata in “era un finocchio a rotelle con un nome di merda”.
Grazie a mia nonna Laura, la Royal Family e i loro cappelli esercitavano un vigoroso ascendente su di me. Capire chi fosse la donna che camminava mesta, bersagliata dal pubblico ludibrio, legata in qualche modo alle magioni di Saint James , era mio dovere di suddito, distante solo geograficamente. Sottoposi mia nonna a un serrato interrogatorio sulla biografia di Mrs Parker Bowles, nata Shand, e scoprii che dietro al becero giudizio di “sgualdrina cessa” si celava  la complicata vicenda di una donna innamorata.
Le leggende raccontano che Carlo e Camilla si conoscono nell’Estate del 1970 sul campo di polo di Windsor Great Park bagnato dalla pioggia. Hanno rispettivamente 23 e 24 anni. Lei sceglie queste parole per approcciare al futuro Re del Commonwealth:
“La mia bisnonna era l’amante del vostro trisavolo, che ve ne pare?”
È Amore.
I due non possono sapere che la loro relazione innescherà nei decenni a seguire delle reazioni così violente da far tremare le fondamenta millenarie della monarchia. Carlo sente che Camilla è la donna giusta: è brillante, complice, protettiva, carismatica, paziente e riservata. Vorrebbe sposarla, ma la Royal Family serba altri programmi. Camilla è poco aggraziata, non è vergine e non è nobile, il suo viso non si incornicia degnamente sulle tazze e sui canovacci da vendere al mondo per un patinato Royal Wedding.
Proposta bocciata. La Gran Bretagna vuole una favola dorata, poco importa se privatamente sarà un inferno. La Gran Bretagna avrà la sua favola.
Carlo e Camilla contraggono due distinti matrimoni, ma il loro rapporto non si interromperà mai. Non vi tedio con la cronologia degli eventi che potete consultare ovunque, noi saltiamo diretti al 13 Gennaio 1993, quando la pubblicazione di una telefonata privata fra i due amanti elegge Camilla a sgualdrina del Regno su scala planetaria. Carlo, dominato da un estro spiccatamente romantico, sussurra alla cornetta
“Vorrei essere il tuo tampax, anzi, vorrei essere una scatola di tampax per durare più a lungo.”
Il tracollo, la gogna, il rogo.
Trascorsero degli anni, alcune cose cambiarono, altre no. Il Principe di Galles era separato da sua moglie e continuava ad amare sempre solo Camilla, ma per tutti Mrs. Parker Bowles restava solo una donnaccia, così come io non ero più un bambino, ma per molti rimanevo solo un finocchio.
Quando nel 2005 l’annuncio di Buckingham Palace legittimò il rapporto erano passati 13 anni dalla prima volta che notai Camilla al notiziario. Non immaginavo sarebbe arrivato il giorno in cui la Famiglia Reale e la Chiesa di Inghilterra avrebbero ufficializzato quelle nozze. DOVEVO assistere a quel pezzo di storia. Forse non era la storia dell’umanità, ma un pezzo della mia storia sì, ed era necessario riservarle un’adeguata considerazione, a costo di giocarmi il quadriennio in arte drammatica.
Le nozze erano previste per l’ 8 Aprile 2005 nella cappella di Saint George all’Abbazia di Westminster… Ma il 2 Aprile il papa polacco tira le cuoia nel suo feudo e monopolizza le agende del mondo per una settimana. Il 6 Aprile le campane suonano funeree anche in quello sconfinato Principato di Monaco tutto sole e riciclaggio, causa la dipartita del sovrano Ranier Louis Grimaldi. Il matrimonio slittava così al 9 Aprile, un Sabato, frequenza comunque obbligatoria in Accademia. Se solo un altro monarca, un capo di stato o una pop star internazionale edita da una major fosse schiattata, avrei guadagnato un giorno e goduto della libertà di una Domenica senza trasgressioni disciplinari.
Pazienza, MENTIRÒ, sul registro di classe figurerà “assenza per malattia”.
Quel Sabato il regista moscovita con cui lavoravamo ci avrebbe sottoposto a un esperimento di improvvisazioni sul metodo della biomeccanica per 10 ore. Avesse saputo il russo per quale motivo disertavo l’esperimento mi sarei ritrovato scalzo a vendere aringhe porta a porta in Siberia.
Colpevole di Royal Wedding doloso.
Ma mi serviva una tv davanti al quale piantarmi per assistere all’evento!
Negli appartamenti dei dormitori non era consentito tenerne una. Dovevo trovare il modo di guardare la diretta fuori dal Campus senza essere scoperto. Domenica 3 Aprile consulto gli orari della funzione mattutina per assicurarmi di evitarla, inforco la bici del mio dinoccolato amico Leonard e pedalo alla volta della chiesa anglicana Saint Andrew in Colinton Road. La chiesa sembra una graziosa scultura di marzapane immersa in un parco di bouganville e tulipani. Tutto recintato e sorvegliato da un guardiano che mi perquisisce prima di lasciarmi passare. Un’immagine di impatto trascendentale, io a gambe e braccia aperte tastato da un tarchiato maschio nero prima di entrare nella casa del Signore. Il pastore Verstand, 40 anni, carnagione diafana, alto 2 metri, riordina gli appunti per la replica pomeridiana del sermone. Mi presento e gli espongo la mia necessità.
La sua risposta, lanciando un’occhiata in giro:
“Mi sta filmando?”
Io “Cosa? No!”
“Ah, pensavo a una candid camera! Quindi fa sul serio?”
“Certo! Devo solo guardare la vostra tv per qualche ora.”
“Assolutamente no!”
“Guardi che può fidarsi di me, se preferisce può farmi piantonare dall’uomo armato lì fuori.”
“Mi dispiace Mr. Mac Allister, il nostro televisore non è disponibile per questo genere di proiezioni.”
“Non voglio vedere Penthouse via cavo! Sarà una cerimonia in diretta da Westminster.”
“A due isolati da qui c’è un irish pub, si rivolga a loro.”
“Circondato da sbronzi che mi rutteranno nelle orecchie  le felicitazioni nuziali?”
“Non posso aiutarla.”
“Andiamo! Dov’è finita l’accoglienza biblica per i viandanti?”
“Mi scusi, ma lei non ha l’aria di una gravida errabonda.”
“Non è questo il punto! Da bambino ho abbandonato i cattolici per unirmi alla chiesa di Inghilterra e questa adesso mi respinge?”
“Abbiamo un fitto calendario di incontri, sarò lieto di averla con noi quando desidera.”
“Oh ma per favore, ho anche ordinato una torta in pasticceria per l’occasione!”
“Se vuole scusarmi Mr. Mac Allister la mia famiglia mi aspetta per il pranzo.”
“Lo sa, mi sorprende che non si interessi a questo evento. In fondo chi si sposa è il futuro Capo della Chiesa Anglicana. Tecnicamente Carlo del Galles è il suo datore di lavoro. Pensi se scrivessi al vescovo di Bloemfontein dicendogli che questa parrocchia rinnega l’appartenenza a Canterbury.”
“Pensi se io scrivessi al Direttore del Drama Department dicendogli che sono stato importunato da un loro studente…”
“Grazie per il suo prezioso tempo Pastore Verstand, le auguro un buon pranzo.”
Gli giro le spalle, faccio per andarmene. Poi infiammato dall’impeto estremo con cui potrei giocarmi la carriera accademica, mi volto e con voce sostenuta faccio echeggiare nella chiesa “Frocio!”
Il pastore Verstand “Come dice, scusi?”
“È così che mi chiamavano al mio villaggio. Frocio perché non giocavo a calcio, perché non partecipavo alle gare di rutti e di sputi, perché sembravo arrivare da un altro mondo, fino a quando IO sono diventato il bersaglio di quella gara di sputi. E sa come chiamavano Camilla Parker Bowles, la donna che il Principe di Galles sposerà Sabato? Cavalla, racchia, puttana. E perché? Perché da una vita ama ed è amata da un principe senza somigliare alle principesse delle favole. Quel matrimonio è la rivincita di una vittima che ha difeso la natura dei suoi sentimenti senza fingere di essere qualcun’ altro. È così strano che per una volta io voglia assistere a un finale diverso?”
“Oh Gesù, possibile? È così importante per lei?”
“Sì, lo è.”
Lui, sospirando “ Le ancelle della carità si riuniscono il Sabato nel cottage qui fuori. Lì c’è un televisore, per questa volta può utilizzarlo.”
“Grazie! Non se ne pentirà, mi comporterò bene con le ancelle.”
“A proposito di questo, sono un branco di pensionate chiassose. Mi aspetto che le sorvegli e impedisca l’abuso di alcolici.”
“Sicuro!”
“Rimpiangerà di non aver scelto gli sbronzi dell’irish Pub…”
Mattina del 9 Aprile 2005, La suoneria della mia sveglia suona il “God save the Queen, Radio Campus canta “One in a million” dei  Pet Shop Boys, il sole riverbera luminoso su Westfontein. Respiro l’atmosfera delle grandi occasioni.
Eugenio Alves, il mio inquilino lusitano (che, per favore, era così poco british), esce per un Sabato di lavoro in Accademia. Ha creduto al mio simulato conato di vomito. Mentre i miei compagni di classe si sottopongono a una giornata di disciplinati “otkaz, possyl, tocka, tormos” per sintetizzare scenicamente la verità in un solo biomeccanico gesto, io trasudo menzogna nella realtà. Sorridendo sornione davanti allo specchio  annodo la cravatta con i colori dell’Union Jack. Celo il mio stile insolitamente etoniano coprendomi con una tuta sportiva e il cappello del team universitario di cricket per non destare sospetti all’uscita dal dormitorio. Scivolo fuori dal Campus alla volta della pasticceria dove ritiro una torta a strati con la frutta. Tutto ad altissima frequenza tachicardica, mandibola contratta e sguardo vigile, fino a quando la Saint Andrew in simil marzapane si staglia innanzi, salvifica custodia del silente ammutinamento. Ritrovo il sorvegliante, meno accigliato dalla volta precedente. Mi palpeggia su e giù per scongiurare la detenzione di mannaie o revolver, poi chiede di aprire la confezione della pasticceria. Appena l’involucro schiuso rivela una colorata, fragrante torta, i suoi occhi luccicano.
Si presenta come Orson e confida di adorare i dolci.
Gliene prometto una robusta fetta quando sarà tagliata, ma lui dice
“La dobbiamo tagliare a metà. Subito!”
Io allarmato “Hey, non sia ingordo! Questa è per le mie ospiti.”
“Ma no! Devo tagliarla per controllare che non ci sia una pistola nell’impasto!”
“Orson! Le sembro un criminale?”
“Beh, non mi sembra neanche un atleta eppure porta il cappellino della squadra di cricket.”
“Non solo le cheerleaders si danno da fare negli spogliatoi…”
Il suo sguardo si carica di un’incognita diffidente. Alleggerisco la tensione proponendo “Mi permetta di mostrarla intatta alle signore, poi la tagliamo.”
“Quali signore?”
“Le ancelle della carità, devo incontrarle nel cottage”
“Dio onnipotente! Sicuro di non voler infilare una pistola in quella torta?”
“Sono tanto moleste?”
“Ah ah! Avanti ragazzo, buona fortuna!”
Sprezzante del senso del pericolo e animato da quello del dovere, riparo nel confessionale d’ebano per una rapida trasformazione alla Clark Kent. Smessa la divisa sportiva, torno dandy incravattato e mi avvio verso il covo delle furie.
Qualunque sia il mio super potere, basterà  a domarle? Questa l’incognita, quando un concitato sghignazzare riverbera dall’interno del cottage in stile cape dutch, prima che io prema sulla maniglia della porta per entrare. Lo scenario che mi si presenta non potrebbe essere più familiare, ma non per questo rassicurante. Un manipolo di eccentriche madame in menopausa, paludate di cappellini pastello farciti di frutta e fiori cascanti, esplode in manifestazioni di euforico giubilo ad altissima concentrazione di decibel. Il deja vu mi riporta a decine di fiere, commemorazioni, funzioni domenicali, riffe benefiche e visite per il tè nell’infanzia al villaggio. Sono nove, tutte decise a primeggiare per me. Ai loro occhi velati dalla cataratta emano il fulgore da uomo del momento. Vengo investito da domande le cui risposte sono inascoltate per l’eccesso d’insieme, sento tirarmi per un braccio, mentre una mi porge una sedia, un’altra mi sfila la torta dalle mani, quella mi porge una tazza di tè e una ciotola di budino, qualcuna mi bacia mentre l’amica ci scatta una foto. Individuo preoccupato il televisore, consapevole che queste dannate vegliarde cariche a pallettoni non mi faranno ascoltare una parola della diretta tv.
Un boato stentoreo irrompe nella sala smorzando la tregenda
“SIGNORE!”
È Orson, il vigilante. Capisco qual è il mio super potere: l’umiltà di accettare un aiuto.
“Suvvia, lasciatelo respirare.”
Noto sollevato che le nove madame gli riconoscono una qualche carica autoritaria. Un paio di loro gli trotterella intorno eccitata e lo invita a unirsi al convivio.   Lui, di nuovo verso di loro
“Dio solo sa cosa abbiano patito i vostri mariti per una vita! Invidio quelli già sepolti.”
Si leva un coro di sghignazzanti risolini. Orson incalza
“Avanti, organizzate le cose per bene, il ragazzo vuole vedere la tv. ”
Il gruppo si adopera ordinando un semicerchio di poltroncine intorno al televisore. La tavola è imbandita di vettovaglie. Una corpacciuta signora vestita di giallo taglia la mia torta e distribuisce le fette accompagnate da tazze di tè. Orson, accomodandosi di fianco, sarcastico mi strizza l’occhio
“Sapevo che ti avrebbero steso!”
Io, riconoscente “Grazie Orson, le prometto una torta intera per domenica prossima.”
Sorseggio un po’ dell’infuso e ricordo la raccomandazione del pastore Verstand circa gli alcolici. Divieto raggirato. Il tè è stato preventivamente corretto con una pesante dose di brandy. Tv sintonizzata sulla BBC, live da Londra.
CI SIAMO. È Royal Wedding.
Ancora una volta la stampa internazionale non è stata tenera con i futuri coniugi, tutti pronti a scommettere quanto ridicola sarebbe una sposa di 57 anni in abito bianco con i capelli stopposi.
NON IO.
Davanti all’abbazia di Westminster, sotto un cielo plumbeo very londoner, giunge la Rolls-Royce Phantom VI con lo stemma del casato di Saint James.
Un valletto apre la portiera. Emerge così della vegetazione dorata e riconosco l’ inconfondibile stile di Mrs. Parker Bowles. In barba alle previsioni dei tabloid  “velo si o velo no?”, si è fatta fissare (con la colla  per il bricolage?) una palma e delle piume sui capelli. Torno indietro di 13 anni, alla prima volta che la vidi con quel fagiano impigliato nella sua testa…Sollevo la tazza corroborato dal tè etilico e sussurro orgoglioso
-“SO BRAVE, SO BRITISH.”-
Il reporter in tv chiosa: trattasi di una composizione di Phil Treacy, il cappellaio irlandese che aveva già incastonato sulla zazzera di Camilla impianti alla Tim Burton in molteplici occasioni. Lei timida, saluta la folla con leggero cenno di mano svelando l’anello donatole dalla Royal Family, appartenuto alla Regina Madre. Io, assetato di riscatto, voglio leggere nel suo aggraziato gesto -“Ridete adesso, stronzi. Chi sta per diventare la seconda donna più potente del Commonwealth?”-
Al suo fianco il Principe di Galles a mezzo sorriso, con la consueta aria del “Sono qui, quanti siete, che bello, ma quanto vorrei essere a spasso per le Highlands.”
Segue uno stuolo di teste coronate, gentiluomini in cilindro e tight, ladies dai copricapi apparecchiati della qualunque. La cerimonia ha inizio.
Benedizione del Primate Anglicano Rowan William, mente sopraffina e sopracciglia ribelli, simile a un elfo dei boschi. Una richiesta di perdono dei due sposi per aver commesso adulterio, ottimo repertorio musicale dal retrogusto elegiaco e malinconico.
Ma è LEI, Sua Maestà Elizabeth Alexandra Mary Windsor II, madre dello sposo, a regalarmi la soddisfazione maggiore con questa dedica
“Ho un importante annuncio da fare: Hedge Hunter, il mio cavallo, ha vinto il Grand National!”
Si levano le risate degli astanti. Quindi prosegue con la metafora ippica, elencando i faticosi ostacoli che i cavalli devono superare in quella prestigiosa competizione all’ippodromo di Aintree. Così torna a suo figlio e alla nuora appena acquisita
“Come in una dura corsa a ostacoli anche Carlo e Camilla hanno superato terribili barriere. Ce l’hanno fatta, sono orgogliosa e auguro loro ogni bene.   Mio figlio è felice al traguardo con la donna che ama, benvenuti nel recinto del vincitore.”
Le note del God Save the Queen si levano nell’etere e…Mrs. Parker Bowles, nata Shand, può accartocciare e cestinare la sua carta di identità da commoner.
Al suono degli ottoni, sulla fanfara gallese di Hoddinott, la coppia percorre la navata centrale verso l’uscita dell’abbazia e, per la prima volta, teste coronate, ministri, paggi, portaombrelli ed estintori DEVONO chinare il capo davanti a lei, ufficialmente Sua Altezza Reale Camilla, Duchessa di Cornovaglia e di Rothesay, Principessa del Galles, Contessa di Chester, Baronessa di Renfrewal, futura Regina del Regno Unito e del Reame del Commonwealth.
All’esterno di Westminster le folate di vento mettono alla prova le penne dorate sul blasonato capo, ma lei commenta sorridendoci su. Il sorriso è equino, i capelli sono stopposi, la coppia è matura, sì, ma non importa. Come dorati pomelli sullo scettro, eccoli inossidabili, insieme dopo 34 anni da quell’incontro piovoso al campo da polo. La folla esulta, acclama e sventola bandierine da pochi penny, e io lo so, qualche bulletto camuffato da reporter domani scriverà maligno.
Ma innalzando la mia tazza di tè, fedele alla promessa fatta da bambino isolato nella Contea dimenticata, annuisco e brindo a voce limpida
“È così che deve andare, Dio salvi la Duchessa di Cornovaglia!”
Orson il vigilante mi osserva stranito, le madame intorno esultano, colmano i bicchieri, servono pasticcini e mi estorcono la promessa di un prossimo incontro. Al termine del simposio una di loro, Mrs. Janssen, mi offre gentilmente un passaggio sul fuoristrada di suo nipote, il giovane fattore nerboruto in canottiera dall’aria ruvida che la aspetta fuori dalla Saint  Andrew. Dio se accetto!
Questo è tutto. Se compiere 30 anni significa essere uomini e riconoscere responsabilmente il proprio passato, io ho appena cominciato a farlo.
Consapevole che questa deposizione potrebbe causare l’invalidamento della qualifica di attore professionista a opera del Drama Department. Come se lavorare per il servizio reclami del cibo in scatola per animali domestici non avesse già adombrato sufficientemente i bagliori della mia gloria scenica…Ma questa è un’altra faccenda, come lo è il seguito dell’amicizia con il nipote di Mrs. Janssen, ruvido fattore in canotta con cui ho condiviso ruvidi, frugali colloqui al crepuscolo nel cottage della Saint Andrew…
SO BRAVE SO BRITISH tratto da A life in a Fax – Fax Mac Allister – Copyright ©
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The Dickens Galaxy (dickensian around the world)

Thanks to the Rochester’s community for welcoming me to the recent Dickens Festival. I didn’t want to “invade” your wall with a long-winded post. but if you want, you can share it.Thank you for the commitment and passion you put into setting up that wonderful event, this is the reason that led me there specifically to attend the parade: Charles Dickens is not simply a novelist, Charles Dickens is a style, an impetuous artistic current. When my gaze turns to the shelves of my library dedicated to Dickens I perceive the vital buzz of thousands of lives that have passed the test of time. Dickens is one of the most precious gifts I have received in my life. When I think of Pip, Hugh, Ester, Sissy, Joe Gargery, I think of them as people and not as characters, because the power of a Dickensian creature is the vitality resistance to 200 years from its conception. So Pip is not an invention. Since my adolescence Pip is the friend I hoped to meet in my life, imperfect, impulsive, naive, fragile, human. When I was a child, my grandmother Laura set up a small home reception every year on February 7 during which some episodes were told from Dickens’ novels. We children used to play a performance with cardboard silhouettes of the characters drawn by my grandfather. Today I am an adult (since 2000 … DAMN) and I shared this tradition with the children of the current family. They are excited to celebrate the birthday of a gentleman born two centuries ago with a real cake and surprising stories! Dickens has always been in my life since I have memories and I can say that he will always be there for me. Thanks to Dickens I kept the childish feeling of magical expectation of Christmas which is renewed every year with the reading of “A Christmas carol” and every time on the night of December 24th after closing the book I am amazed because that infallible alchemy has worked once again. Around me under my Christmas tree I perceive the vibrations of that wonderful story that feeds my excellent mood for all the following holidays. I am happy to see how contemporary artistic expressions spread Dickensian culture. I believe that theater can and should still draw a great deal from Dickens because the intensity of some characters and their dialogues are perfect for the stage. Miss Havisham is one of the most complicated theatrical characters a woman could play. Often I need to relive a particular Dickensian scene, so I open the novel and thanks to the authenticity of those dialogues a world of images and emotions arise. I thank Dickens for being able to tell how in the most dramatic life there is room for the comic break and I thank him for showing the secondary characters. The person apparently in the shadow of the protagonists is capable of showing impetus of unforgettable personality. Thanks to Charles Dickens for his prolific creativity, thanks to anyone who today is committed to keeping his art alive and delivering it to the future. Thanks to all of you Dickensians, wherever you are in the world. Fax Mac Allister

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MENDING SHADOWS

La mia ombra al sole è lunga quanto un bambino grande, come quelli che fanno la quinta e vanno in gita al Charlotte Lake, ma io ho sei anni. Sto aspettando i miei genitori all’esterno della bottega di Mr.Trinket, il magnano. Quello vende solo ferri, che noia! Ho chiesto a mamma e papà di rifare il nostro gioco. Quando loro usciranno dal bazar fingeremo di non conoscerci, di incontrarci per la prima volta.
La campanella in ottone tintinna e la porta del negozio si apre. Lei indossa un abito colorato svolazzante che le copre le ginocchia, mi piacciono i suoi boccoli morbidi sulle spalle. Lui, che ha gli occhi grandi e i capelli corti e ricci mi chiede -“E tu chi sei?”-
Io, pronto -“Sono un bambino!”-
-“Come ti chiami?”-
-“Fax.”-
Lei, meravigliata -“Che strano nome!”-
Io, compìto -“È un nome africano!”-
Lui- “Da dove vieni?”-
-“Da Asmara!”-
 -“Lontano! Sei arrivato su un cammello?”-
Rido -“No! Ho preso il treno fino a Massawa,poi il bastimento e dopo un digeribile…uun dirigibile!”-
Lei, divertita -“Hai viaggiato tanto! Sei qui da solo?”-
-“Sì.”-
-“E adesso dove vai?”-
-“Non lo so. Voi dove abitate?”-
Lui indica la magione sulla collina di Gardar -“Lassù.”-
Io stupefatto -“Dentro quel castello?”-
-“Proprio lì. Vuoi venire con noi?”-
Io -“Ma per sempre?”-
Lei annuisce sorridente.
Io -“Quindi sono il vostro figlio.”-
Lui -“Sì, per sempre…”-
Saltello affiancandoli -“Va bene, andiamo!”-
Li tengo per mano. Il sole pallido estende le nostre ombre sul selciato muschioso. Loro sono Selva e Abel, io sono Fax, quindi sono il loro figlio…per sempre.
“Mending memories” tratto da A life in a Fax di Fax Mac Allister  Copyright ©

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AMORE AL MACELLO

BUTCHERED LOVE

AMORE AL MACELLO
di Fax Mac Allister

La prima volta non si scorda mai, purtroppo.
La mia prima volta con Liam, il pattinatore dai glutei stellati, la volevo dimenticare.
Per questo, matricola al college in Sudafrica, creai un profilo su una chat gay. La necessità di essere amati spinge a commettere delle scelte confuse. Dovevo essere davvero confuso per cercare l’amore in un sito che misurava le probabilità di trovarlo sui centimetri in dotazione.
L’amore passava poi da un questionario che chiedeva se fossi attivo, passivo, versatile nelle gang bang, all’aperto o da interni, disponibile al pissing, bukkake, fisting, quanto amassi masticare i capezzoli o pressare i miei con le pinze, farmi legare, appendere, impalare, sostare al crepuscolo nella piazzola dei tir davanti al fast food per camionisti di Edemburg, frustarmi i testicoli con un fascio di ortiche del Limpopo o con un rovo del Karoo…Decine di varianti per tracciare il profilo della vacca ideale, pronta a condividere le sue carni, PER AMORE. Sembrava che tutti gli utenti collegati cercassero il principe azzurro, ma in attesa di riconoscere lo strepito degli zoccoli del cavallo bianco non disdegnassero rovistare l’arsenale di qualche arciere di passaggio.
Aprii un profilo moderato e funzionò.
La parvenza del pudico ventenne da alfabetizzare all’eros suscitava una fila di pulsioni hardcore quanto quelle dichiarate platealmente. Districandomi nell’umida giungla di erezioni rigogliose giunsi al profilo di “ForEverHard”.
Una brillante strategia di emancipazione dal superficiale pattinatore tatuato.
Dietro al sempre duro nickname si celava Joshua, 35 anni da Sandton, azionista nel settore minerario, spesso in trasferta nel Free State, sicuro di sé, realizzato professionalmente, gli occhi azzurro algidi, una fantastica fossetta sul mento e quella voce virile dalle proprietà orgasmiche.
C’era qualcosa di nuovo nel gioco dei ruoli che si era creato fra me e Joshua. Lui esperto e fascinoso, io acerbo in fase di collaudo.
L’idea di frequentare un uomo più grande di quindici anni, sfidare la mia immaturità sessuale facendo di lui un mentore, mi poneva nel costante bilico tra il timore e l’eccitazione per il rischio.
Da neofita del sesso assumeva un’aurea trasgressiva anche quello che non lo era, ma riponevo in Joshua la fiducia nel farmi guidare dove prima avrei dubitato di giungere.
Fiducia che si stemperò alla sua richiesta di sesso senza preservativo. Declinai. Fu il primo “NO” e i turgori svigorirono. Avevo infranto il gioco di accondiscendenza, l’ombra di un mio rifiuto rendeva per lui meno eccitante il nostro rapporto. Affrontai la questione apertamente. Avrei accettato se entrambi ci fossimo sottoposti al test hiv e mi avesse garantito che escludeva amplessi con altre persone. Mi accusò di essere diffidente, si dichiarò deluso e tradito.
Mi chiedevo come un sudafricano potesse concepire la leggerezza meditata del sesso non protetto. Come poteva essere certo che io fossi a posto? Ero iscritto in un ateneo internazionale dove frequentavo il Drama Department e abitavo nel residence del campus, tutti i requisiti per una cittadinanza onoraria a Sodoma.
I dati sulla diffusione di Aids e Hiv nell’Africa australe raccontano uno sterminio silenzioso che si compie per effetto di una guerra senza deflagrazioni. Luther, il mio compagno di corso namibiano, confermava che il business delle pompe funebri aveva reso suo padre uno degli uomini più facoltosi di Mariental.
Il sagace patriarca aveva però seppellito due dei suoi figli sieropositivi. Nonostante l’hiv sia diffuso gli africani provano molta vergogna a parlarne. Nelson Mandela, sulle pagine del Sunday Times condivise la scomparsa del suo secondogenito “Lo dico pubblicamente, perché il virus non sia un tabù, mio figlio è morto di Aids”.
Il nostro maestro di danza contemporanea biasimava la molliccia campagna di prevenzione sessuale programmata dal College. Preferiva condurci la Domenica mattina nel reparto di malattie infettive dell’ospedale civile e imporci come aiutanti agli infermieri.
Un confronto pratico con le conseguenze delle scopate disinvolte.
Ma è anche una realtà che milioni di persone hiv+ in Sudafrica e nel mondo conducono vite longeve e prive di limitazioni.
Appena giunto nel luminoso Free State dal fosco Colinshire ero uno straniero diffidente tormentato dall’ombra dell’epidemia.
Dopo sette giorni le ombre diventarono persone, nomi, storie, amici, compagni di corso, vita.
Detestavo ammetterlo, ma per la faccenda del bareback con Joshua avevo bisogno della valutazione di uno scopatore seriale…LIAM, il pattinatore dai glutei stellati che mi aveva tradito con il barista del Romeo nei cessi del locale.

Sono le 8.10 del mattino. Liam è in ritardo. Seduto al dehor di una tavola calda boera fingo di memorizzare le battute di un monologo per conferire all’attesa un distacco disinteressato. La cameriera indossa un costume tradizionale afrikaner rabberciato.
È irritata perché occupo il tavolino senza ordinare, io quanto lei perché comincio a temere l’umiliazione di un bidone all’appuntamento.
Dal pergolato pendono i glicini che disperdono petali viola sul mio copione. Un polveroso pick-up con il cassone carico di pecore lamentose inchioda davanti al locale. Sgusciano dall’abitacolo due giovani farmer con fucile a tracolla seguiti da un cane.
Distraggono la cameriera con lusinghe ruvide che lei non disprezza. Ordinano frittata di funghi saltati, speck e birre.
Poi lo scorgo librare sui roller appena svoltata la collina dei girasoli. Plana sull’aria sfiorando il lastricato con il portamento di un atleta ellenico in slim shorts e canotta fluo. Mi odio perché lo penso, ma penso che non ricordassi quanto fosse bello.
Incurante della panoramica luminosa che sembra studiata da un team pubblicitario per celebrare il suo ingresso, Liam frena davanti al dehor. Ha colorato con striature smeraldo i capelli biondi.
Il cane lo circuisce con latrati rabbiosi. Gli allevatori lo richiamano severi ma fissano Liam sprezzanti.

Guardo il cane ringhiare mentre lui si accomoda -“È il comitato di accoglienza che ti meriti…”-

Sorride smagliante -“Sono in ritardo!”-

Io, nervoso -“Certo che lo sei, ti avevo scritto che ho lezione alle nove.”-

-“Scusa! Ma lasciami parlare prima che mi spieghi perché siamo qui, ho pensato a un discorso. Farei qualunque cosa per farmi perdonare Fax. Sono stato pessimo, tutte le bugie, il tradimento. So di aver fatto sanguinare il tuo cuore.”-

-“Beh mica solo quello, visto che ti sei preso la mia verginità!”-

I due farmer ci osservano dal loro tavolo.
Io mi schiarisco la gola e modero il tono della voce, ma continuo ad aggredire Liam -“E poi piantala di parlare come in una soap opera.”-

-“Volevo dare un tocco teatrale al discorso, pensavo ti facesse piacere.”

-“Non è teatrale, mi dà sui nervi! Sembri la caricatura di un episodio di Egoli.”-
Una tensione fastidiosa si concentra sulla mia epiglottide, respiro per combattere il reflusso di rancori e ammetto -“Però un tocco teatrale c’è …”- Gli mostro la coincidenza nel titolo del copione che sto memorizzando, “Il ragazzo dai capelli verdi” di Betsy Beaton.
 
Lui, divertito lisciandosi il ciuffo smeraldo con la mano -“Wow! Sono già diventato leggenda!”-

-“Sicuro, se i cessi del Romeo potessero parlare…”-

-“Comunque Fax sono contento del tuo messaggio, non pensavo di risentirti.”-

-“Neanche io, ma ho un secondo fine.”-

-“Spara!”-

-“Prima ordiniamo, rischio due ore di training a stomaco vuoto con quell’invasato di Kosta.”-

-“Quel tipo balcanico che vi addestra come militari?”-

-“Lui!”-

La cameriera ci porge caffè e waffel con i bricchi di sciroppo d’acero e cioccolata fusa. Dal tavolo dei farmer si leva un rutto, lei sghignazza complice.

Mentre annego il mio pasto sotto una colata iperglicemica dico a Liam -“Ho visto il tuo profilo sulla chat Gayza, scrivi che cerchi l’amore.”-

-“Beh, è la verità!”-

-“E come mai le pose della tua gallery sembrano la fase preparatoria di una colonscopia?”-

-“Per mostrare le stelle! Che senso ha tatuarsi il culo se nessuno può vederlo?”-

-“Sei una vittima dell’altruismo. Ma non temere, in quelle foto si vedono le stelle, i pianeti  e un buco nero.”-

-“Cosa avrei dovuto fare? Non hai più voluto saperne di me.”-

-“Devi prestarmi il tuo culo Liam, ecco cosa devi fare!”-

-“Non credevo lo volessi ancora!”-

-“Non voglio scopare con te, idiota!” (Mentivo, volevo eccome). “Devi contattare un tipo che frequento dal tuo profilo Gayza, per capire che intenzioni abbia.”-

-“Sei fuori? Scordatelo!”-

-“Oh, ma dai! Hai detto che faresti qualunque cosa per farti perdonare. Mi trovo in una situazione spiacevole e in parte sei responsabile.”-

-“Io?”-

-“Dovevo dimenticarti e forse nella fretta sono riuscito a trovare un soggetto peggiore di te.”-

-“Ti tradisce?”-

-“No! Non lo so. Mi ha proposto sesso condom free.”-

-“Non lo hai fatto?”-

-No. Gli ho chiesto il test hiv e si è offeso.”-

-“È un idiota!”-

-“Capisci perché ho bisogno di te?”-

-“Ma non puoi aprire un profilo fake con la foto di un concorrente del Big Brother svedese come fanno tutti?”-

-“Io non rubo le foto di uno svedese, e poi nessun reality ha mostrato il culo come fai tu in quella gallery.”-

-“Mi descrivi come una puttana senza morale!”-

-“Liam, non costringermi a essere amaro…Da quando hai le stelle sul didietro ricevi più visite del planetarium di Naval. Provocalo un po’ online e fai qualche domanda su di lui, i tuoi amici del Romeo sono un comitato di comari del gossip.”-

I due allevatori si dirigono al pick up seguiti dal cane, uno di loro sputa per terra nella nostra traiettoria, l’altro mugugna -“moffie.”- (frocio in afrikaans).
Liam ha le labbra lucide di sciroppo, le ripulisce con un giro di lingua, mi diventa duro.
Accetta la missione -“Va bene, ti aggiorno fra una settimana.”-

-“Ti dò quattro giorni. Devo rivederlo nel week end!”-

Aspetto che passi l’erezione, mollo conto, mancia e fuggo via verso il campus. Kosta mi farà vomitare il waffel di corsa a salti e piegamenti in serie da 20, secondo uno schema di allenamento che chiama “suicidio”.

Quello che succede quando Liam Van Heerden è online su Gayza è la metafora di ciò che era accaduto giorni prima nel vicino Zimbabwe, teatro di un tracollo economico-finanziario epocale.
Nel Paese, definito fino al 2000 “Granaio d’Africa” o “Svizzera del Sud”, un camion carico di bestiame si ribalta per una manovra distratta.
Un gruppo di affamati spettatori sulla strada assalta le vacche e le scuoia vive a pugni e mazzate contendendosi le carni macellate a mani nude. Uno scenario splatter degno di un b-movie, di una tragedia greca o di una chat per incontri fra allupati.
Nella tragica, metaforica calca di affamati di carne di vacca, si identifica un conoscente…

Lo attendo in pausa pranzo sul prato della facoltà di discipline sportive. I rugbisti del college si allenano al sole regalandomi una panoramica notevole. Liam arriva a piedi reggendo i roller con le mani.
Si siede sull’erba e accenna un sorriso vacuo.

Io sospiro intuitivo -“Lo sapevo…spara.”-

-“Avevi ragione, sei riuscito a trovare un soggetto peggiore di me.”-

-“Quanto peggiore?”-

-“Si chiama Isak, non Joshua. Ha 42 anni. Non è di Sandton, vive a Kymberly con sua moglie, hanno una figlia di dieci anni. Si sbatte un biondino minorenne che va al liceo di Fichardt Park. Tira coca e non è nuovo al bareback. L’unica cosa vera è il suo lavoro, i diamanti.”-

-“Però! Quanto chiacchierate al Romeo…”-

-“Mi dispiace Fax.”-

-“Mi ha detto ti amo al secondo appuntamento, dovevo immaginarlo.”-

-“Già, non credere mai alle parole di un maschio sulla soglia
dell’ orgasmo. Io Sabato ho ansimato una proposta di matrimonio al fattorino della pizzeria.”-

-“E non lo sposerai?”-

-“Per ora no, si è arrabbiato.”-

-“Perché?”-

-“Credo c’entri il fatto che Lunedì ho scopato il tipo che dà i volantini per la promozione quattro formaggi.”-

Scuoto il capo. Liam incalza -“Fottitene Fax, fatti un giro su uno di quei rugbisti. Ti presento io qualcuno.”-

-“Si fa un biondino del liceo? E vuole convincermi a cavalcarmi a pelo!”-

-“Se vuoi lo faccio pestare. Conosco un ex carcerato sempre pronto ad aiutarmi…”-

-“Sei dolce, però no, devo affrontarlo io.”-

Stavo da schifo, una latta di carne in gelatina, così mi sentivo. Uno scarto di macello in lattina sottoprezzo esposto sugli scaffali di un discount, mentre un accattivante fast food offre hamburger, patatine dorate e gadget. Mi tormentavo immaginando Joshua (ora Isak) scoparsi quell’adolescente, odiandomi per non essere biondo e per essere tutto quello che ero. La richiesta del sesso non protetto poi, accompagnata da un’infilata di stronzate sul completamento di un sentimento mai provato prima, che avrebbe consolidato il nostro rapporto da un vincolo di complicità…
Izak ignorava fosse caduta la maschera di Joshua, ma ignorava soprattutto quanto pericoloso e vendicativo fosse un ventenne umiliato che indossa la maschera dell’ingenuo, rassicurante, bravo ragazzo.

“Una serata memorabile”, questo gli avevo promesso.
Dall’anta dell’armadio nel dormitorio lo specchio mi riflette sobrio ed elegante.
Prelevo i due biglietti dalla cassettiera alla testa del letto.
Li custodisco separati, uno nella tasca destra dei pantaloni, l’altro nella sinistra. Quei cartoncini riveleranno “qualcosa” nel memorabile appuntamento.
Ho scelto io il ristorante esclusivo in Brand Street, dove, casualmente (?) quella sera si riuniscono le Dame Boere della Carità Afrikaner, una congrega di borghesi razziste che alterna l’hobby della filantropia alle kermesse stagionali.
Joshua mi preleva con il suo coupé fuori dal campus.
Commenta quanto i pantaloni mi disegnino bene il culo.
Mentre guida preme la mia mano sul suo pacco per farmi sentire quanto sia duro all’idea di scoparmi dopo cena (finalmente senza guaine di lattice). Dice che sarà come una nuova prima volta, liberi, pelle contro pelle. Schiocca le dita sul ritmo della musica pop in un patetico eccesso di giovanilismo ostentato.
È sensuale, spavaldo, di ottimo umore, solo mi domanda perché abbia scelto un locale così pretenzioso. Imbocchiamo il viale alberato di Brand Street.
Mi imbarazza quando nel parcheggio lancia le chiavi dell’auto al posteggiatore armato di mitra -“Ti affido la bambina!”-
Il parcheggiatore in divisa non può saperlo, ma dentro di me gli prometto -“Tranquillo, lo distruggo prima del dessert.”-

Il ristorante è un edificio nederlandese di fine 1800, con soffitti alti dai pannelli dipinti e pavimentazione in legno, un ampio camino in arenaria e un proverbiale utilizzo delle luci soffuse. Alle pareti, sequenze di dipinti del Great Trek e scene di vita nell’ Oranje Vrijstaat. Un presidio della resistenza segregazionista che non si è arresa alle trasformazioni occorse al di là delle siepi potate chirurgicamente. Gli unici “non bianchi” presenti sono dei subalterni relegati alle mansioni meno esposte. Il pianista suona qualche inno, probabilmente tratto dal repertorio della Banda nazionalsocialista.
Joshua si incupisce un poco quando il maître ci conduce al tavolo centrale nella sala.
A pochi metri da noi la moglie del sindaco, adorna di una parure sufficiente a sanare il debito pubblico del Malawi, pronuncia un’arringa al convivio delle Dame Boere della Carità Afrikaner.

Ci accomodiamo. Lui, scruta la sala diffidente -“Avrei preferito un posto più intimo…”-

Io, ingenuo -“Non ti piace?”-

-“Certo, è carino, ma è lo stile formale che frequento per i meeting di lavoro.”-

-“Scusa, non lo sapevo…”-

-“Quante cose devo insegnarti.”-

Io, malizioso -“Che ne sai? Magari stasera scopri che ho imparato qualcosa di nuovo…e che so fartelo bene.”-

Geme sommesso -“Mmmh, non fare così o ti porto via subito…Ti va? Saltiamo la cena!”-

-“Scordatelo! Sulla carta dei dolci c’è il pudding alla malva e lo voglio!”-

Gioca sui doppi sensi tra il dolce e le farciture che mi offrirebbe al posto del pudding. Nuovi avventori occupano i tavoli circostanti. Controlla il tono della voce sussurrando.
Gli sferro il primo colpo quando il sommelier versa l’assaggio dello Château d’Yquem.
Mentre lui sorseggia il vino io incalzo -“Allora, IZAK, com’è?”-

Esplode un colpo di tosse nervoso, nebulizza il vino dalle narici e si tampona con il tovagliolo.
 
Il sommelier, preoccupato -“Qualcosa non va signore?”-

Lui si ricompone e lo congeda.

-“Perché mi hai chiamato così?”-

Io, candido -“Così come? Ti ho chiamato col tuo nome…”-
E tracanno il primo calice.

Sembra sospettoso. Dissipo i suoi dubbi avviando una vivace conversazione di aneddoti sulla vita al college, lui parla della frenesia di Johannesburg e delle ingerenze capitaliste di un magnate cinese nel settore minerario locale. Monopolizzo la bottiglia da cui attingo generose porzioni. Prima di assaggiare l’agnello glassato allo zenzero la mia lingua è sufficientemente sciolta da schioccare le sferzate -“Quell’industriale pechinese dovrebbe sapere che non si può prendere tutto senza riguardi. Digli che se trovasse il cadavere di una balena nel Colinshire, sarebbe obbligato a consegnare la testa e la coda ai Sovrani di Buckingham.”-

-“Ah, ah, sul serio?”-

-“Certo! Spesso ignoriamo la legge senza saperlo. Ci pensi mai?
È importante conoscere le consuetudini del posto in cui vivi. Per esempio, tu sapevi che in Kenya è vietato fumare tabacco per le strade?”-

-“No, non lo sapevo.”-

-“Ecco, vedi? E magari non sai che l’età minima per un rapporto sessuale in Sudafrica è 16 anni per gli etero mentre 19 per i gay. Non si capisce perché i gay debbano pensarci tre anni più degli etero prima di darlo via! Ma è questa è la legge.”-

-“Perché parliamo di questo?”-

Io, pacato -“Perché forse ti sei distratto, forse non sai che scoparsi un quindicenne in questo Paese è un reato!”-

Lui, gelido -“Ma cosa dici?”-

Dimentico di sussurrare -“Dico che tu, fottuto bastardo, vuoi montarmi senza sella quando raccatti chiunque in chat e fuori dai licei!”-

-“Cristo di un Dio, vuoi abbassare la voce? Ti sentono!”-

-“E allora? Tu sei un protagonista dominante, però ti dò una notizia, a volte i ruoli secondari ti sorprendono e ti fottono la scena! Nelle tasche dei miei pantaloni ci sono due biglietti, in uno c’è il numero di tua moglie a Kimberly, nell’altro quello della famiglia del biondino che ti sbatti. Chi chiamerò prima?”-

Isak si alza dalla sedia  -“Tu hai dei problemi!”-

-“Forse, ma i tuoi Isak Malan di Kimberly, sono molto più grossi!
I miei voti in impostazione della voce sono ottimi questo mese, se provi a fare un passo urlo alla sala che sei un pedofilo e faccio chiamare la polizia. Siediti.”-

Alcune adamantine signore della carità ci osservano.

Isak si mette seduto -“Fax ti prego, abbassa la voce…”-
 
Il maître ci raggiunge -“È tutto a posto signori?”-

Io -“Sì, bene! A parte lui che mi tradisce con uno studente molto giovane…Ci porta un’altra bottiglia per favore?”-

Il maître si dilegua sgomento.

Isak allenta il nodo della cravatta -“Va bene, cosa vuoi?”-

Scuoto il capo -“Isak, Isak, Isak, non puoi comprare tutto con la carta business. Beh, a parte questa cena…il vino costa quanto un semestre al college.”-

-“Allora che intenzioni hai?”-

-“Ahh, non mettermi fretta! Ti ho promesso una serata memorabile. La avrai. Mangia il coniglio affumicato e asciugati il sudore dalla fronte. Un po’ di eleganza.”-  

Mi servo un altro calice di bianco e infierisco -” Quindi tua figlia ha 10 anni? Che gioia essere padre! Però crescono così in fretta. La cartella, la merenda… Poi ti distrai, cinque anni volano e all’uscita di scuola al tuo posto la carica un tipo con un’auto sportiva cromata, e quella frega di brutto quando sei al liceo. Lei magari nell’astuccio delle matite conserva un profilattico, ma quel figo col pistone biturbo le promette l’amore oltre il lattice, e te la carica senza sella sul cofano in un parcheggio o, se fortunata, in una camera d’albergo. Adesso tu mi racconti sinceramente chi sei e perché volevi scoparmi senza preservativo come un untore mitomane. So una quantità di cose su di te, ancora un’altra bugia e ti prometto che la prossima festa del papà la celebri con i tuoi compagni di cella a Grootvlei.”-

E Isak, parla. Svaniscono le proprietà orgasmiche della sua voce nelle parole farfugliate, il mento con la fossetta trema, niente più sicumera. Emerge il vuoto di un quarantenne incapace al confronto maturo, ammorbato da un contesto socio famigliare ultra conservatore e capitalista. Mette compassione un uomo adulto che implora un ventenne di non distruggergli la vita, come se non fosse già a pezzi, con una moglie parcheggiata fra le cristallerie esibita nelle ricorrenze ufficiali.

Nel parcheggio del ristorante il sorvegliante armato guarda impassibile con un grugno verso l’orizzonte. Prima di salire sul taxi che ho chiamato per tornare indietro Isak mi domanda -“Cosa hai deciso di fare?”-

-“Non lo so, sono ubriaco e arrabbiato, è meglio non decida stasera. Tu comportati bene. E se ancora vai a letto con tua moglie, infilati un cazzo di preservativo in trasferta.”-

Monto sul taxi. Abbasso il cristallo scorrevole del finestrino -“Ah, un’altra cosa, mentire sull’età per ringiovanire è roba da…come le chiami tu? Vere checche…Addio, JOSHUA.”-
L’imperturbabile grugno del sorvegliante cede a un ghigno.
Sprofondato nel sedile posteriore dell’auto decomprimo la tensione, i nostalgici edifici coloniali di Brand Street scorrono fuori, l’aggressività lascia posto a una solitudine malinconica.
Estraggo i due biglietti dalle tasche dei pantaloni, sono completamente bianchi, nessun numero annotato.
Conosco molte meno informazioni di quante ne abbia millantate per spaventarlo.
Ciondolo dentro il campus, le rose emanano un profumo intenso dall’aiuola che disegna l’emblema dell’Ateneo. Gruppi di studenti sostano tranquilli sul prato alla luce dei lampioni. Il cielo terso vibra tempestato di astri come un abito di Cher al Superbowl.
Osservo quel luccichio confortato dalla distanza che mi separa dal Colinshire, dove le stelle non si vedevano. Che uomo sarei diventato se fossi intrappolato ancora in quella nebbia disperante? Forse anch’io commetterei torbide nefandezze e mentirei a tutti in una vita accettabilmente esponibile.
Nelle vene e nei reni mi scorrono 10.000 rand di vino pregiato.
Sono sufficientemente ebbro da rischiare un pugno in faccia.
Supero di un piano il mio alloggio nel dormitorio e busso a una porta.
Enoch, l’erculeo studente nigeriano, apre a torso nudo in pantaloncini bianchi. Una cafona croce metallica gli pende dal collo fra i pettorali gonfi. Dallo stereo della camera un rapper minaccia di ardere vivo qualcuno.
Lo anticipo prima che possa chiedermi cosa voglia -“Mentimi Enoch, tanto sono sbronzo. Prometti che se diventi gay sono il primo che ti farai.”-

Lui, con ovvietà -“Sicuro! Se divento frocio tu sei mio.”-

Scoppio a ridere per la prontezza della sua reazione -“Grazie! Buonanotte.”-

Faccio per allontanarmi ondeggiando lungo il corridoio e lui -“Brutta serata, Fax?”-

Barcollante annuisco -“Brutta…”-

-“Stai lì, mi vesto, ci facciamo una birra.”-

Voglio sboccare all’idea di bere ancora, ma non avendo toccato cibo durante quella cena di livore, delle patatine a effetto spugna non guasterebbero.
La destinazione è un pub untissimo gestito da un mozambicano fegatoso, con la segatura al posto della pavimentazione nei cessi.
Io, disinibito dal tasso etilico, mi sfogo davanti a birre e braai di pollo con un nigeriano etero, palestrato, irascibile e pentecostale.

Lui, brusco -“Ma ti lamenti pure? Magari le ragazze facessero così! Frigni perché il tipo scopa un po’ di manzi in giro. E allora? Scopateli anche tu, anzi, scopateveli insieme!”-

-“Dì un po’, hai praticato pattinaggio ultimamente? E se io fossi innamorato di lui?”-

-“L’amore? Hai vent’anni, è pieno di finocchi questo mondo, infilalo un po’ in giro e sii felice…”-

Il mozambicano dietro al bancone inarca le sopracciglia.

Enoch addenta nervoso una coscia di pollo -“Cristo, non posso credere di essere qui a incoraggiare un maschio bianco al sesso gay.”-

Io biascico commosso -“Sono così orgoglioso di te, Enoch.”-

-“Però devo ammetterlo, se prima di conoscerti avessi saputo in che squadra giochi, non saremmo mai diventati amici. Ora non mi importa tanto, sei a posto anche se strano.”-

-“Visto che sono ubriaco e domani mi scorderò tutto, posso toccarti i bicipiti?”-

-“Visto che non sono ubriaco e ti scorderai tutto posso gonfiarti la faccia a manate.”-

-“Mhh, adoro questo tono!”-

-“Non scherzo Fax, ti gonfio.”-

Quella Domenica mattina inforcai la bici per Harvey Road. Composi con un pennarello indelebile, nei bagni maschili della stazione ferroviaria, un annuncio eloquente con il numero dell’ufficio a cui rispondeva la segretaria di Isak. Un turno volontario all’ospedale civile e di nuovo a pedalate verso il campus. In sosta al semaforo mi affianca un camion con rimorchio carico di vacche. Osservo i loro sguardi acquosi e le saluto -“Lo so ragazze, la vita è un macello, ci vediamo in chat.”-
E via, verso il prossimo login d’amore su Gayza.

“AMORE AL MACELLO” tratto da “A life in a Fax” di Fax Mac Allister

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